L’uomo è la misura di tutte le cose

Protagora afferma che l’uomo è la misura di tutte le cose.
Egli sostiene che non si può dire chi sia più sapiente tra un sano e un malato che si cibano degli stessi alimenti, con il primo che ritiene che esso sia gustoso mentre il secondo lo cataloga come amaro.
Con Protagora nasce il relativismo, perché mette l’uomo al centro di tutto.
Facciamo un altro esempio: Francesco e Andrea camminano e uno dei due afferma di avere freddo, mentre l’altro ritiene che invece ci sia un’ottima temperatura.
La loro passeggiata continua, incontrano una ragazza e uno dei due ne rimane affascinato, mentre l’altro ne è oltremodo disgustato.
Per ultimo, entrano in un bar e prendono cappuccio e brioches.
Francesco, arrivato alla cassa, rimane allibito davanti a uno scontrino così caro: 2.50€.
Andrea, invece, ritiene che il prezzo sia giusto.
Gli dice infatti: «Bisogna considerare le tasse che paga questo bar, i dipendenti a cui dare lo stipendio a fine mese…E’ un ottimo prezzo comunque».
Quindi, la giornata era fredda o afosa?
La ragazza era affascinante o di una bruttezza micidiale?
E, per ultimo, il prezzo era conveniente o non lo era?
Chi dei due ragazzi aveva ragione?
Chi diceva il vero?
Non esiste giusto o sbagliato, non esiste il vero o il falso, perché ogni impressione è corretta: ognuno vede ciò che gli è dato vedere, secondo la propria esperienza e il proprio status.
Protagora afferma che all’uomo non è dato sapere cos’è una qualsiasi cosa nel suo essere, ma solo come questa cosa appare a lui.
È l’uomo, quindi, l’unità di misura, il metro di giudizio di ogni cosa.

La lezione politica di Platone oggi

Qualche giorno fa mi sono imbattuta nella VII lettera di Platone, di cui mi ha colpito soprattutto questa frase: “Un tempo nella mia giovinezza, ho provato ciò che tanti adolescenti provano: avevo progettato, dal giorno in cui avessi potuto disporre di me, di dedicarmi subito alla vita politica”. La lettura del testo mi ha spinto ad alcune riflessioni.

Platone si poneva un problema politico ancora attuale.

Come nell’Atene di allora, anche oggi il mondo è attraversato da numerosi cambiamenti e sconvolgimenti politici, che hanno portato alla rottura di quell’equilibrio necessario al buon funzionamento dello Stato. Ai nostri giorni, infatti, molti uomini che partecipano alla vita politica sono disonesti, corrotti e incapaci di amministrare la giustizia. I cittadini vedono deluse le proprie aspettative e tradita la fiducia riposta in quelli che dovrebbero essere i propri rappresentanti. Di giorno in giorno si assiste alla dissoluzione delle leggi, dei costumi e di quei valori morali su cui dovrebbe fondarsi ogni sistema di governo. Ciò comporta, a sua volta, un decadimento generale della società, dal quale sembrerebbe non esserci più via d’uscita. Di fronte a una situazione del genere, un miglioramento, invece, deve essere auspicato e, a questo proposito, penso che  Platone avesse ragione nel sostenere che coloro che avevano il compito di governare dovevano essere sapienti.

In termini moderni ciò significa che ogni capo di Stato dovrebbe avere un’adeguata conoscenza – cosa che spesso viene a mancare – per meglio distinguere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto,  l’opportuno dall’inopportuno. La conoscenza da sola, però, non basta. Credo che sia necessario che chi ci governa non debba avere interessi materiali, perché altrimenti, come spesso accade, finirà prima o poi con il rivolgere la sua attenzione verso questi interessi privati, piuttosto che verso quelli comuni, arricchendosi personalmente o favorendo alcune persone a scapito di altre.

Solo così, quindi, si otterrebbe uno Stato giusto e buono e, di conseguenza, anche quello che noi definiamo il ” bene comune”, ossia le aspettative di felicità di tutti i cittadini.

Dunque, è innegabile che la bontà di uno Stato sia legata al fatto che chi comanda governi in nome del bene comune e non in nome dei suoi interessi privati.

Ora, però, rimane un interrogativo: una concezione della politica di questo tipo è davvero realizzabile o è pura e semplice utopia?

Di certo a questa domanda ancora tutt’oggi non possiamo dare una risposta certa. É innegabile, infatti, che la teoria politica di Platone delinei un modello di Stato, inesistente e difficilmente realizzabile nella realtà, ma ritengo che il filosofo possa ancora esserci d’aiuto e che la sua lezione possa essere tuttora attuale. Innanzitutto bisognerebbe considerare in positivo e non in negativo l’utopia platonica, intendendola come un mezzo che possa spingere al miglioramento. Mi spiego meglio: essa non si limita, infatti, a proporre un’idea di Stato perfetto, ma, così facendo, sottolinea anche le imperfezioni di Stati storici reali costituirebbe – letta in questo modo – uno stimolo a costruire, se non Stati perfetti, almeno in parte migliori. In secondo luogo, l’utopia fornisce, seppur sul piano centrale, un modello organizzativo di Stato e di politica. Basterebbe, quindi, ripulirla delle sue ristrettezze dottrinali e guardare a essa come un progetto da sviluppare, tenendo ovviamente conto del contesto di riferimento. In terzo e ultimo luogo, bisognerebbe riuscire a tradurre in azione tale progetto. Come? Io penso che ciò non sia completamente impossibile, ma sia possibile solo a certe condizioni. In primis si devono educare gli uomini ad essere buoni cittadini; tale compito spetta in parte alla famiglia, in parte alla scuola in modi diversi: la famiglia educando al bene, la scuola fornendo delle nozioni pratiche attraverso lo studio delle diverse discipline.

Cittadini giusti, poi, a loro volta, formeranno uno Stato giusto, perché saranno in grado di scegliere tra loro i migliori a governare. Infine, quest’ultimi, in quanto tali, adempirebbero convinti al proprio compito, operando per il benessere collettivo.

Detta in questi termini, la soluzione apparirebbe ovvia e scontata; in realtà, si tratta di un percorso lungo e difficile da attuare, che prevede in un primo momento un cambiamento di mentalità – e qui entrerebbe in gioco quella che in senso lato si definisce “la cultura di un popolo” – e solo in un secondo momento il passaggio dal sapere alla pratica. Solo così, allora, si otterrebbero dei buoni risultati e, forse, si metterebbe fine alla degenerazione politico-sociale che domina il nostro tempo.

Le nuove tecniche di combattimento nel Trecento

Battaglia di Crecy con archi e balestre.
Battaglia di Crecy con archi e balestre.

Fino a tutto il XIII secolo le operazioni militari erano state condotte e gestite dai “signori della guerra” appartenenti all’aristocrazia, che dai tempi di Carlo Magno avevano costituito la parte più forte del potere politico e militare: i nobili erano infatti i soli a disporre di terre e quindi di rendite sufficienti per allestire, armare e mantenere possenti reparti di cavalleria. Erano i cavalieri, truppe di nobili uomini in cerca di fortuna alle dipendenze dei signori feudali, il punto di forza degli eserciti medievali. I fanti rappresentavano soltanto un nucleo secondario, e di essi facevano parte prevalentemente contadini e artigiani strappati alle loro consuete occupazioni, male armati e male addestrati. Tuttavia nel corso del XIV secolo, a partire dalla guerra dei Cent’anni, il ruolo della cavalleria venne fortemente ridimensionato a causa della comparsa di nuove e più efficaci tattiche di combattimento della fanteria. Tra queste innovazioni le più significative sono senza dubbio le armi da getto, ovvero la balestra e l’arco che acquistarono progressivamente importanza e cambiarono radicalmente le tecniche di combattimento. La balestra aveva infatti una potenza micidiale: le frecce che scagliava potevano trapassare qualsiasi armatura. Per il suo impiego però si richiedeva un addestramento ben preciso. Superiore alla balestra per efficienza era l’arco, poiché richiedeva un tempo di ricarica della freccia molto inferiore rispetto a quello della balestra; infatti se un balestriere esperto non riusciva a scagliare più di due frecce al minuto, i lunghi archi utilizzati dagli Inglesi durante la guerra dei Cent’anni ne potevano lanciare perfino otto. L’arco era l’arma plebea per eccellenza, tutti i contadini ne conoscevano l’uso e durante le battaglie nulla potevano le spade dei cavalieri contro la pioggia di frecce che cadeva su di loro. Ma gli arcieri e i balestrieri avevano generalmente un ruolo di difesa. Fu l’introduzione delle lunghe picche dei soldati svizzeri, a modificare la tecnica di combattimento, assegnando un ruolo primario alla fanteria. Durante le battaglie, la fanteria svizzera, costituita da circa seimila soldati, si disponeva in quadrati ed ogni fante era armato di picca: una lancia lunga circa tre metri, che veniva usata con entrambe le mani. In questo modo la cavalleria nemica che giungeva verso la formazione di fanti, si trovava davanti ad un immensa concentrazione di lance che venivano manovrate all’unisono con grande tempismo e, come si può immaginare, nella maggior parte dei casi i cavalieri venivano infilzati da questo grande numero di picche. Successivamente il prestigio della fanteria svizzera fu oscurato, verso la fine del XV secolo, dall’uso della polvere da sparo. Inventata dai Cinesi presumibilmente intorno all’VII-IX secolo, venne da loro utilizzata per la fabbricazione di fuochi d’artificio. Furono gli Europei a farne uno strumento di morte, costruendo intorno alla metà del XIV secolo le prime armi da fuoco. I primi cannoni erano di bronzo, rame e stagno. Questi metalli divennero una preziosa merce di scambio e si formò un ingente mercato di armi soprattutto nell’Italia settentrionale e nei Paesi Bassi. Inizialmente i proiettili erano a forma di freccia, poi vennero sostituiti da palle di pietra e infine di bronzo. Il nome di questo nuovo tipo di arma deriva dalla forma della struttura dalla quale venivano lanciati i proiettili, che in un primo periodo era una sorta di vaso, poi si passò ad una forma tubolare, cioè alla “canna”, posta su un cavalletto. Inizialmente i cannoni avevano molti difetti e oltre che ad avere un tiro impreciso facevano anche più rumore che danni. Dopo vari studi e perfezionamenti anche da parte di uomini di fama, come Leonardo Da Vinci, che studiò con precisione la traiettoria dei proiettili, le prestazioni dei cannoni migliorarono notevolmente ed essi diventarono così la miglior arma in circolazione. Con l’arrivo delle armi da fuoco le fortificazioni delle città vennero modificate; vennero progettati bastioni, torri e mura elevate che potessero resistere il più possibile ai bombardamenti dei cannoni. Furono inoltre studiate forme più adatte a respingere i colpi: il cilindro e il cuneo sembrarono le forme più indicate per evitare la distruzione perché davano maggiore stabilità. Come tutte le grandi invenzioni anche le armi da fuoco suscitarono varie perplessità. Io sono d’accordo con Ludovico Ariosto che nell’Orlando Furioso, trovò l’occasione per esprimere il suo giudizio indignato, nel quale condannò le armi da fuoco come strumenti di guerra poco virtuosi. In effetti con le armi da fuoco si perse il senso di gloria, di onore e di valore che si poteva ottenere con una battaglia di spade tra due cavalieri o con un duello tra due eroi epici che si affrontavano per proteggere o manifestare i propri ideali.