La concezione della morte dopo il ‘300

«A peste, fame et bello, libera nos, Domine» [oh Signore, liberaci dalla peste, dalla fame e dalla guerra]: era questa la principale invocazione che durante il XIV secolo il popolo di tutta Europa aveva elevavato a Dio.

Agli inizi del Trecento le città europee e i comuni italiani avevano raggiunto un grado abbastanza alto di prosperità: nacquero società commerciali di importanza internazionale, si svilupparono nuove attività manifatturiere, vi fu quindi un periodo di maggiore sviluppo economico, con aumento della produzione agricola e un notevole incremento demografico. Ma questo benessere finì presto.
Infatti, il XIV secolo fu caratterizzato da una profonda crisi economica, sociale e politica. Ci furono forti cambiamenti climatici (intere annate di pioggia, stagioni sempre o troppo fredde o troppo umide o troppo secche) che provocarono numerose carestie. Queste portarono all’indebolimento della popolazione, che divenne più esposta alle epidemie, in particolare di peste, che dal 1348-1349 fino ai primi decenni del Quattrocento colpirono quasi tutto il continente, con un conseguente crollo demografico.
Ed è proprio delle conseguenze della peste che voglio parlare, in particolare della diversa concezione della morte che essa presentò.

Durante quasi tutto il Medioevo la morte era vista come un traguardo a cui aspirare ed era attesa con la tranquilla, rassegnata consapevolezza della fine. Essa, per altro, cristianamente intesa, non era una cosa di cui dolersi: numerose testimonianze dimostrano che la morte era una fine attesa ardentemente o addirittura invocata (si basti pensare al “Cantico delle creature”, in cui San Francesco esprime la sua lode a Dio per la nostra fine terrena). Tuttavia, a partire dal Trecento, accanto a questa idea “consolante” della morte ne apparve lentamente un’altra.

L’elevata mortalità dovuta all’epidemia di peste rese l’approccio con l’idea della morte molto diverso. La vita troppo breve ed il timore della malattia spinsero gli uomini ad essere amareggiati nel dover abbandonare l’esistenza, a considerare quindi l’età che passava come una punizione: iniziarono a sentire così la necessità di vivere al meglio ogni momento, di godere delle gioie della vita. Col maggior diffondersi della peste in Europa, questo nuovo amore per l’esistenza terrena si faceva sempre più forte, portando di conseguenza orrore per la morte ed rimpianto per la vita.

Una visione, quindi, di paura per la vita dell’aldilà, di rimpianto per l’esistenza corrente, ma comunque di piena coscienza dell’inevitabilità della fine terrena. Tuttavia, pur assumendo un nuovo terribile aspetto, pur essendo considerata come una tragedia misteriosa (per la rapidità e la brutalità con cui arrivava), la morte divenne anche una presenza costante, un fatto di tutti i giorni: era diventata familiare. Infatti gli artisti (dando il via a una vera e propria arte macabra) presero a rappresentare nelle loro opere vivi e morti gli uni accanto agli altri, esprimendo in tal modo la fragilità dell’esistenza e la consapevolezza della morte.

E al giorno d’oggi la nostra concezione della morte qual è? È mutata rispetto a questa? O anche noi proviamo veramente paura della morte?
Ma indipendentemente dal nostro pensiero, credo che sia fondamentale sottolineare una cosa, che gli europei del Trecento avevano ben capito e che forse noi oggi a volte dimentichiamo: la vita è una e breve e, quindi, va vissuta al meglio, tra gioie e dolori.

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