Dai un “taglio” ai tuoi problemi!

“Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem” ossia “Non moltiplicare gli enti se non necessario”; con questa affermazione Guglielmo di Occam, filosofo inglese del Trecento, diede vita al principio metodologico conosciuto con il nome di “Rasoio di Occam”.
Tale principio suggerisce, individuato un fenomeno che vogliamo analizzare, di scartare eventuali ipotesi aggiuntive che andrebbero solo a complicare la nostra formulazione e fermarci al primo stadio della nostra teoria, se già la riteniamo sufficiente. Ad esempio: se affermo che una pentola d’acqua messa su un fornello dopo un certo periodo di tempo bolle poiché ha raggiunto una data temperatura, potrei anche aggiungere che bolle poiché è il 6 dicembre 2012 o perché mi trovo a Milano; grazie al Rasoio di Occam siamo in grado di estrapolare un’unica teoria “purificata” da ogni assurda aggiunta; nel nostro caso sarà: l’acqua bolle poiché ha raggiunto la sua temperatura di ebollizione indipendentemente da in che giorno o dove si trovi. Di questo modo ci accorgiamo di come tutte le scienze moderne si avvalgano di tale principio per dar vita a degli enunciati, poiché, come visto in precedenza, senza di esso sarebbero infinite le ipotesi formulabili. Occam ci raccomanda quindi di stare ben lontani dalle complicazioni, poiché tra molte e diverse ipotesi la più semplice e sintetica (pur sempre ragionevole), è anche la più plausibile. Come dargli torto? La storia lo prova: le teorie più semplici hanno quasi sempre superato un maggior numero di controlli rispetto alle teorie più complesse.
Inoltre, con tale principio crollano i pilastri della metafisica e della gnoseologia tradizionale: cade il concetto di sostanza poiché delle cose noi conosciamo solo le qualità o gli accidenti che ci rivela l’esperienza. Altrettanto succede per il concetto metafisico di causa efficiente: ciò che si conosce grazie all’esperienza è la diversità tra causa ed effetto, ma non è necessario istituire un definito vincolo metafisico tra di essi. Occam non distingue perciò tra causa efficiente e causa finale poiché l’una non agisce perché desiderata dall’altra e inoltre perché non è possibile dimostrare che ogni evento abbia una causa finale. Non ha senso dire che il fuoco brucia in vista di un fine dal momento che non è necessario perché il fuoco bruci.
Il rasoio di Occam attua un processo di economizzazione della ragione che esclude dal mondo della scienza gli enti e i concetti considerati superflui, in primo luogo gli enti e i concetti metafisici.
Secondo voi quale potrebbe essere il miglior campo in cui attuare questo principio? Si pensi alla politica e alla Costituzione italiana: tanti eletti con le stesse idee e troppe leggi, a volte poco conciliabili fra loro. Perché non si getta tutto, politici e costituzione in una padella?
Come della pancetta si libera del proprio grasso per far sì che rimanga la vera sostanza carnosa, allo stesso modo noi potremmo ridurre il numero delle persone da eleggere, che portano solo confusione, e di quelle leggi con clausole cavillose, che non fanno altro che complicarci l’esistenza.
Forse è giunto il momento di applicare il rasoio di Occam alla politica, alla burocrazia, al diritto: staremmo tutti meglio.

Protagora ha torto

Protagora afferma: “L’uomo è misura di tutte le cose, per quello che sono così come sono, per quello che non sono così come non sono”. Questa massima può essere interpretata in due modi:

  • interpretazione relativista: la natura delle cose è esattamente così come pare a ciascuno (quindi visione soggettiva)
  • accettazione dei limiti umani: gli uomini devono attenersi a criteri di giudizio esclusivamente umani, perché non possono confrontarsi con una verità assoluta e quindi divina.

Io non sono d’accordo con questo pensiero. A mio parere ogni persona ha una visione soggettiva delle cose e del mondo, ma spesso essa corrisponde all’oggettività e ad un pensiero comune considerato reale e concreto da tutti. Penso quindi che delle verità assolute con cui paragonarsi esistano e siano assolutamente accessibili dall’ uomo.

Per quello che ho capito sul pensiero di Protagora, se una persona dice “il sole brilla” e un’altra dice “il sole non brilla”, allora entrambe le affermazioni sono giuste. Secondo me non è vero perché ad esempio in questo caso, tra i pensieri dei due, una verità assoluta che può essere provata c’è, ed è che il sole brilla. Quindi ritengo esatta solamente la prima affermazione e di conseguenza, ritengo sbagliato il pensiero di Protagora.

Certo, Protagora potrebbe rispondermi: “per te il sole brilla, ma soltanto di giorno, per un cieco non brilla mai. E tutti e due avete ragione”. No, invece, perché io posso vedere il sole brillare solo di giorno ma ciò non significa che per me brilli solo in quel momento: esso non smette mai di brillare ma semplicemente lo fa da un’altra parte del mondo. Vi è quindi una spiegazione scientifica in grado di dimostrare ciò che è vero ed oggettivo. Il cieco non vede il sole brillare perché ha una percezione del mondo diversa, ma questo non significa che egli viva in un mondo concretamente diverso; quindi anche per lui ci devono essere delle certezze, magari anche dimostrate scientificamente, e queste portano al formarsi di pensieri comuni ed oggettivi.

Federico Rampini, la Cina, la crisi e i timori della Sinistra

Mi permetto di consigliare a tutti gli studenti, e non, uno dei giornlisti italiani che preferisco: Federico Rampini.
In questi giorni di vacanza che mi paiono privi di alcuna magia “natalizia” -abbiamo cose più serie di cui preoccuparci?- sto leggendo un libro che aiuta a rilassarmi, più del tabacco.
Il libro è “Il secolo cinese”, del suddetto giornalista, che mi aiuta a rimettere a posto i pezzi confusi che ho in testa, fra razzismi, paure, angosce, vizi e ansie di questi mesi. Vuole essere un documento sulla permanenza di Rampini a Pechino, come corrispondente per La Repubblica, ma -sarò particolarmente predisposto- risuona ad ogni pagina come qualcosa di più grande, un documento sulla situazione globale, che non può non interessare anche gli Occidentali che temono di non trovare più un posto nel mondo.

Oltre a questo consiglio un paio di libri letti l’anno scorso, sempre suoi visto che siamo in tema: uno è “Alla mia sinistra”. Figlio di ferrovieri, affascinati dal comunismo come speranza per la crescita e per la ridistribuzione del reddito, questo libro è un must per chi si ritrova ‘di sinistra’ dalla nascita, e per inerzia aggiungerei. Rampini butta un po’ di carne sul fuoco: dove la sinistra ha sbagliato secondo lui e dove anche sbagliando va rivalutata.

“Non ci possiamo più permettere uno stato sociale -falso”, praticamente edito quest’anno credo: un medicinale contro la nausea della discussione anti-tedesca sul welfare.

E infine, non l’ho ancora letto completamente però, “Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo”, libro dichiaratamente dedicato a una generazione diversa dalla mia -quella dei miei genitori- che trovo contenga anche degli spunti interessanti per vent’enni o giu di li.

Auguri di buone feste.

~Giuseppe

Bacone: la scienza e la società ideale

Francesco Bacone visse tra il 1561 e il 1626. Fu una personalità decisiva nella nascita del pensiero scientifico moderno. Non contribuì direttamente alla realizzazione delle numerose scoperte del Seicento, ma fu importante per la sua concezione innovativa della scienza.

Proponeva una stretta collaborazione tra le arti liberali (il sapere teorico) e le arti meccaniche (il sapere tecnico): un sapere collettivo, in continuo progresso, teso a scoprire i processi della natura.

Edizione de La nuova Atlantide del 1628 - frontespizio
Edizione de La nuova Atlantide del 1628 – frontespizio

Secondo me è interessante soffermarsi sulla sua opera utopistica, La Nuova Atlantide. Il libro non presenta i temi tipici delle tradizionali opere di utopia politica (la migliore forma di governo, il ruolo delle magistrature, la funzione della nobiltà, l’educazione del principe). Si può invece meglio definire come un’opera di messianismo profetico, di sociologia utopistica o, per utilizzare un termine più corretto ai giorni nostri, di futurologia.

Bacone colloca la sua comunità ideale nell’isola di Bensalem. Essa è caratterizzata da tolleranza nei confronti di ogni religione (anche se c’è una fede ufficialmente professata, quella cristiana), da un alto tenore di vita, da ricchezza e benessere diffuso (evidente nelle cerimonie e nelle festività, celebrate sempre con solennità). Di conseguenza è presente una comune serenità e concordia civile tra tutti gli abitanti, che tra di loro assumono un comportamento generoso, cortese e rispettoso. Inoltre a Bensalem è ritenuta fondamentale l’austerità dei costumi e l’integrità degli abitanti. A ciò è dovuta la condanna della prostituzione, dell’omosessualità e di ogni genere di comportamento dissoluto attraverso l’applicazione di rigide norme morali.

Infine la comunità descritta da Bacone concepisce il matrimonio come un vincolo esclusivamente monogamico, che ha come scopo la procreazione e implica una pena ereditaria nel caso venga contratto senza il consenso dei genitori.

Un altro tema importante, anzi il principale, trattato dal filosofo ne La Nuova Atlantide è il rapporto tra scienza e politica. Infatti nella civiltà ideale di Bacone agli scienziati viene affidata una funzione specifica: essi vivono separati dal potere politico e dal resto dei cittadini e lavorano in solitudine, in luoghi tranquilli dove possono sviluppare ricerche e scoperte scientifiche. Inoltre gli scienziati possono decidere se le scoperte realizzate debbono essere rese note o meno al resto degli abitanti di Bensalem e, nel caso vengano nascoste ad essi, se possono essere rivelate agli organismi politici o tenute segrete anche a questi ultimi. Infatti, per Bacone, anche in una società così pacifica bisogna cautelarsi sull’eventuale uso indiscriminato e pericoloso che il potere pubblico potrebbe fare delle ricerche tecnologiche. Il filosofo inglese poi, oltre a porre una distinzione netta tra attività scientifica e politica, separa fortemente l’ambito della religione dalla scienza, affermando che solo l’etica e la religione si devono occupare di stabilire i valori corretti a cui attenersi.

Dunque Bacone ha assunto un ruolo fondamentale nella storia della filosofia perché ha valorizzato la scienza e la tecnologia, capendo che esse permettono un’evoluzione positiva delle condizioni della vita umana. Infatti egli ha affermato che la conoscenza degli uomini è limitata dagli idola (le superstizioni, i pregiudizi, le immagini) e dalla tradizione magica, che Bacone reputa un sapere fantastico, segreto, superstizioso, indifferente al bene pubblico e quindi da respingere. L’uomo deve essere ministro e interprete della natura, ma l’unica via da seguire è la scienza.

Personalmente credo che il pensiero filosofico di Bacone sia molto attuale. Infatti egli tratta temi che possono costituire spunti di riflessione in ogni epoca e in ogni luogo.

Anche oggi la nostra conoscenza è spesso viziata da superstizioni e preconcetti. Sebbene non siano più diffuse come un tempo le credenze magiche, tutti abbiamo dei pregiudizi, che ci convincono di cose sbagliate e ci inducono in errore, allontanandoci dalla conoscenza della verità.

Venendo all’argomento principale che ho trattato, il rapporto tra scienza e politica descritto da Bacone ne La Nuova Atlantide, bisogna tener ben presente che le sue riflessioni sono circoscritte ad una civiltà ideale. Sebbene non sia un testo di utopia politica, ma di futurologia, questo libro presuppone una società inarrivabile, lontana dalla realtà concreta. La comunità di Bensalem è un modello di civiltà serena e pacifica, ma non sono tanto la concordia civile e il rispetto reciproco ad essere difficili da realizzare, bensì gli elementi che li determinano: in una società in crisi come la nostra, sembra impossibile pensare ad una ricchezza e un benessere diffusi tra tutti i cittadini.

Concordo con Bacone per quanto riguarda la sua considerazione sulle funzioni della scienza: le scoperte tecnologiche permettono agli uomini di progredire, migliorare e avvicinarsi ad un grado di conoscenza più approfondito, liberandosi di inutili pregiudizi (gli idola baconiani).

Perciò secondo me è fondamentale che ogni società possieda degli scienziati propri, che con le loro scoperte possano far evolvere la condizione dell’intera comunità; ma con il termine “scienziati” voglio intendere non solo coloro che lavorano in ambito scientifico-tecnologico, ma chiunque sia dotato di un sapere specifico che possa costituire un vantaggio per la società. Proprio per questo, al contrario di Bacone, penso sia utile una stretta collaborazione tra scienza e politica: infatti ritengo corretto non svelare le ricerche innovative a tutti gli abitanti per assicurarsi che nessuno possa utilizzarle in modo improprio, ma ritengo anche importante che i politici (ovviamente solo quelli che cercano di raggiungere il bene pubblico, non quello personale) possano trarre insegnamenti da tutto il lavoro eseguito dagli scienziati, in modo da governare meglio, con maggiori conoscenze e consapevolezze, così favorendo una società più organizzata.

I puntini di sospensione

I puntini di sospensione sono un segno di punteggiatura costituito da un gruppo di tre punti, non uno in più non uno in meno, disposti in modo consecutivo e scritti orizzontalmente. Essi hanno varie funzioni,  tra queste la principale e più frequente è la pausa, quindi nella lettura essi si possono paragonare ad un intervallo fonetico come la virgola. I puntini di sospensione furono inventati nel 1496 da Richardus Rufus Neglia, feudatario dell’epoca. Al giorno d’oggi molte persone fanno uso di questo segno, però non sempre nel modo corretto; infatti i puntini di sospensione sono molto utili poiché esprimono incertezza, reticenza, imbarazzo e vaghezza… Il guaio qual è? Qualcuno esagera. E usa i puntini per mascherare atteggiamenti inconfessabili. Probabilmente è proprio questo il motivo per il quale il segno è diventato tanto popolare negli ultimi tempi. Gli individui che utilizzano i puntini di sospensione per scopi non affini alla reale funzione grammaticale che essi svolgono, ma per altri motivi, quali la mancanza di costanza o il coraggio di finire un ragionamento, vengono definiti “Puntinisti”. Raramente questo gruppo di puntini esprime un pensiero compiuto, accompagna invece la maggior parte delle volte mezze ammissioni, spunti, accenni e piccole vigliaccherie (non ho il coraggio di dire qualcosa, e alludo).

A questo punto la domanda che viene da porre è: da dove viene e a cosa è dovuta questa moderna mania puntinista?

Secondo Beppe Severgnini essa ha una doppia origine: biografica (per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta) e tecnologica (per chi è venuto dopo).

Negli anni Sessanta c’era una generazione corrotta dalla corrispondenza intimista, dove era molto frequente l’uso di fitte lettere scritte a mano, per diluire in quattro pagine ciò che non si aveva il coraggio di dire con poche frasi. In queste lettere era presente un numero spropositato di puntini di sospensione, come se non bastasse disposti anche casualmente. Essi erano la rappresentazione grafica di una generazione sospesa (politicamente, culturalmente e sessualmente).

I giovani d’oggi, invece, sono stati traviati dalla tastiera del computer e dai messaggi sul telefonino. Basta tener premuto il tasto del punto e i puntini partono come una raffica di mitragliatrice. Sono tanti, facili,rapidi e pericolosi: bisogna schivarli, se vogliamo evitare che in una frase ci siano più puntini che parole!

frontespizio del libro di Severgnini L'Italiano. Lezioni semiserie

Viulenza !

“Viulenza!” era il motto di Diego Abatantuono nel film Eccezzziunale… veramente dove, in una delle scene più famose, in veste del capo degli ultras del Milan, si prepara al derby della domenica armando i suoi compagni “commilitoni” con mazze di ogni tipo, fionde e catene. Ovviamente questa è una scena di un film ed aveva lo scopo di far divertire lo spettatore amplificando il comportamento di alcuni tifosi di una squadra di calcio che si preparavano ad andare allo stadio per scontrarsi con i proprio acerrimi nemici. Diversamente accadeva invece durante il periodo dell’antico regime: passatempo preferito dei nobili non era infatti andare allo stadio bensì terrorizzare intere contee. Si pensi che i nobili erano autorizzati a portare fucili e spade di ogni tipo e a girare scortati da banditi e servitori armati. Erano diversi e piuttosto fantasiosi i modi con cui si divertivano: si recavano a delle aste e ammazzavano di botte il poveretto che osava rialzare la loro offerta; si travestivano da mendicanti e si appostavano in diversi luoghi chiedendo la carità ai passanti e, qualora questi non gliela avessero concessa, si smascheravano e ,con l’aiuto dei loro banditi, li assalivano; altri si divertivano invece a girare per i paesi e a sparare alle povere persone che gli capitavano sotto tiro.
Non solo i nobili ma anche le classi più basse si rendevano partecipi di atti delittuosi: erano centinaia le bande di contrabbandieri o banditi di strada e borseggiatori che giravano liberi per campagne e città razziando e uccidendo a piacimento qualunque cosa o persona gli capitasse sulla strada.
Data l’incontrollabile violenza, le punizioni erano esemplari per far sì che il popolo assistendovi fosse spinto a non commettere le stesse colpe dei condannati; ma il sistema non funzionò. Spesso le esecuzioni capitali perdevano la funzione di monito e diventavano uno spettacolo cui assistere allegramente. A volte poi era proprio il popolo il carnefice: in diverse occasioni, ad esempio, la folla lapidò o picchiò a morte persone messe alla gogna per aver commesso reati particolarmente aborriti, come la sodomia.

La ghigliottina, la pena di morte “umanitaria”

Era il 1791 quando l’Assemblea Costituente francese approvò la proposta presentata dal dottor Joseph-Ignace Guillotin circa due anni prima: “ogni condannato a morte avrà la testa tagliata”.
Precedentemente questo era un “privilegio” destinato solo ai condannati aristocratici, che venivano decapitati, a differenza del popolo, della gente comune. Infatti, fino all’approvazione della proposta, i criminali erano generalmente messi a morte sul rogo, con il supplizio della ruota o tramite impiccagione.
Tutti questi tipi di esecuzioni rispondevano al significato che la mentalità dell’antico regime attribuiva alla pena di morte: essa doveva essere occasione di espiazione per il criminale; dunque doveva consistere in un supplizio corporale (un vero e proprio tormentoso cerimoniale, una tortura) che si concludeva quasi sempre con l’esecuzione capitale (o, in pochi casi, con la morte per agonia, per dissanguamento, …). Era quindi strettamente necessario che la pena di morte non apparisse come una semplice privazione del diritto alla vita: il condannato doveva morire mediante una serie di sofferenze, che erano commisurate alla gravità del reato che aveva commesso.
Fu grazie all’Illuminismo e alla Rivoluzione Francese che nacque l’idea che le pene corporali (la tortura pre-esecuzione) dovessero essere sostituite con la detenzione in carcere, e che la morte dovesse avvenire nel modo meno crudele possibile. Da qui l’origine della proposta del dottor Guillotin. Egli si rifiutò però di aiutare l’Assemblea nella soluzione pratica, che prevedeva la costruzione di una “democratica” macchina dispensatrice di morte.
Fu dunque chiesto aiuto al dottor Antoine Louis, segretario perpetuo dell’Accademia di Chirurgia: egli scrisse una relazione su come dovesse essere costruita la macchina, che riporto qui di seguito:

«Il paziente poserà la testa su un ceppo di otto pollici di altezza, quattro di spessore, e uno di larghezza. Coricato sul ventre, avrà il petto sollevato dai suoi gomiti e il suo collo sarà senza disagio nell’incavatura del ceppo. Posto dietro la macchina, l’esecutore allenterà i due capi che sostengono la mannaia e farà cadere dall’alto lo strumento che, per il suo peso e per l’accelerazione della velocità, separerà la testa dal tronco in un batter d’occhio.»

Il lavoro manuale fu infine assegnato a Tobias Schmitt, un fabbricante di pianoforti tedesco che si aggiudicò la contesa con un carpentiere, Guidon, il quale aveva richiesto una retribuzione di 5660 livres, giustificandosi con il fatto che si trattava di un’ opera sgradevole da realizzare. Il preventivo vincente fu di sole 960 livres.
La realizzazione richiese una settimana circa. La ghigliottina fu inaugurata dall’esecuzione di un criminale comune, ma venne utilizzata successivamente soprattutto per nemici politici; la macchina mantenne sede fissa presso la zona del Carrousel (anche se l’idea iniziale era quella di erigere il patibolo dove il crimine era stato commesso).

esecuzione di Maria Antonietta
Esecuzione di Maria Antonietta il 16 ottobre 1793

Limpieza de sangre: esempio di persecuzione contro gli ebrei

Nel Duecento in Spagna incominciò la Reconquista, ossia la riconquista cristiana dei territori iberici occupati dai musulmani.
Dopo quasi tre secoli di combattimenti la guerra santa indetta da Innocenzo III finì nel 1492 con la caduta dell’ultimo presidio musulmano in Spagna, la roccaforte di Granada.
La vittoria cristiana diede però inizio a una serie di persecuzioni contro gli ebrei.
Le intolleranze incominciarono alla fine del XIV secolo con semplici seccature amministrative, diventando poi veri massacri nel 1391, quando intere comunità ebraiche furono uccise a Barcellona, a Valencia e a Siviglia dalla popolazione perché considerate responsabili della carestia e delle conseguenti epidemie.
Nel XV secolo i sovrani smisero di proteggere gli ebrei.
Con la fine della Reconquista alla fine del XV secolo la persecuzione diventò espulsione: nell’aprile del 1492 Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona imposero a 200.000 ebrei di lasciare il regno entro il 1° di luglio.
Gli ebrei dovettero lasciare tutti i loro averi o barattarli con altri oggetti, poiché non potevano uscire dal regno con denaro contante; solo i più esperti barattarono i propri averi con titoli validi in tutta Europa.
Nel XVI secolo le persecuzioni si spostarono su tutti quelli che avevano anche solo un antenato ebreo: si riteneva avessero ereditato con il sangue l’odio per Gesù Cristo.
Dal 1540, per molte cariche pubbliche e religiose, divenne obbligatorio dimostrare la “purezza di sangue”, la limpieza de sangre appunto, attraverso una certificazione che assicurasse, risalendo fino ai nonni, l’assenza di antenati ebrei. La limpieza de sangre è il primo esempio di persecuzione degli ebrei non fondato su appartenenza religiosa, ma razziale, che avrà la massima eco nel XX secolo, dove produrrà gli effetti peggiori.
Il razzismo ebbe effetti negativi anche per la Spagna: con gli ebrei, perse un’elitè borghese che faceva girare l’economia spagnola e dava un notevole contributo alle casse dello Stato.
Il rispetto per le differenze è indispensabile in una società civile ed è l’unico modo per vivere insieme nel modo migliore.

Il Timeo

Pagina del Timeo in una traduzione latina
Il Timeo,un dialogo scritto da Platone verso la metà del quarto secolo, ebbe una forte influenza sulla filosofia dei secoli successivi.
Tratta principalmente tre questioni: l’origine dell’universo, la sua struttura e la natura umana. Questi tre argomenti suddividono l’opera in tre parti nelle quali è trattato un problema alla volta. Un prologo introduce la storia. I protagonisti del dialogo sono Socrate, Timeo di Locri (a cui si deve il nome dell’opera), Ermocrate e Crizia. Ci viene spiegato che il dialogo è il proseguimento di una discussione nella quale si era parlato degli argomenti della Repubblica.

Nella prima parte del dialogo parla il solo Timeo. Platone fa raccontare al personaggio l’origine dell’universo, ma poiché questo argomento fa parte della realtà sensibile, che per Platone è qualcosa di intermedio tra l’essere e il non essere, il racconto non può essere del tutto vero ma soltanto verosimile, un mito usato per rappresentare approssimativamente un argomento non spiegabile dalla ragione. Il racconto iniziale di Timeo parla del Demiurgo, una forza ordinatrice, imitatrice, plasmatrice, trasformatrice ma non creatrice, che prende i quattro elementi materiali (acqua, aria, terra e fuoco), i quali si agitavano disordinatamente, e impone loro forma e numeri. In seguito il Demiurgo crea il tempo, immagine dell’eternità, e gli astri. A queste divinità create attribuisce il compito di forgiare quello che resta del mondo, ovvero i corpi delle creature mortali; in questo modo il cosmo è compiuto in maniera completa e bella.

Nella seconda parte del dialogo, Timeo descrive la natura del principio materiale del cosmo, informe e caotico. Successivamente si occupa dello studio dei fenomeni fisici, ed avvisa che le conclusioni a cui arriverà non saranno certe ma solo probabili, poiché appartengono ad un argomento in continuo cambiamento. Platone descrive il cosmo come composto dai quattro elementi: fuoco, terra, aria e acqua. Inoltre afferma che ciascuno di questi elementi ha la forma di un solido geometrico regolare (tetraedro, cubo, ottaedro e icosaedro) e suppone che tutte le cose abbiano una forma riconducibile a questi solidi, che a loro volta sono scomponibili in triangoli. Tutto quindi si riconduce a triangoli, cioè a superfici regolari. Persino gli aspetti sensibili delle cose, colori, sapori e odori sono collegate a strutture e rapporti matematici. Questa parte del dialogo si conclude con altre considerazioni fisiche riguardanti le varie forme che gli elementi assumono e le relazioni tra essi ed i sensi umani.

Nella parte finale del dialogo vengono descritte le caratteristiche fisiche dell’uomo. Si analizzano la funzione e la composizione dei vari organi e si tratta delle parti mortali dell’anima, dell’invecchiamento, della morte e delle malattie che colpiscono corpo e anima. Per finire vengono descritte le sorti dell’anima dopo la morte che, si reincarna in un corpo di donna o di animale se durante la vita si sono commesse azioni malvagie. Così si conclude il discorso di Timeo sul cosmo.

Il Timeo ha rappresentato per molti secoli la base che i filosofi hanno usato per spiegare la realtà. Inoltre molti temi del Timeo sono stati ripresi in età rinascimentale, uno su tutti l’idea dell’anima.

Una carica prestigiosa: il doge di Venezia

palazzo ducale (Venezia), antica residenza dei dogi di Venezia
palazzo ducale (Venezia), antica residenza dei dogi di Venezia

Con il titolo di doge (voce veneta equivalente a “duca”, dal latino dux, capo, comandante) veniva indicato, a partire dal VIII secolo, il magistrato incaricato di governare Venezia.

Verso il X secolo il doge si trasformò in una specie di monarca elettivo, eletto appunto dagli esponenti dell’oligarchia patrizia secondo una procedura molto lunga e complessa che aveva lo scopo di evitare scorrettezze da parte di qualunque persona. Col passare degli anni i dogi videro diminuire i loro poteri; questo però non precluse loro la magnificenza esteriore, sia nei cerimoniali sia nelle dimore e nelle vesti sontuose.

La carica di doge era molto ambita soprattutto per il suo valore simbolico e per il l’importanza che donava alle famiglie aristocratiche; l’immensità, la bellezza, lo sfarzo e tutto quello che circondava le varie cerimonie dogali spingevano tutti quei nobili che erano decisi a lasciare un segno, ad essere qualcosa di più che di un “semplice nobile”, ad aspirare alla carica di doge. Ma nonostante tutta questa importanza quella del doge era una carica molto costosa perché il doge stesso era chiamato e obbligato ad auto-mantenersi in modo pesante e questo precludeva alla maggior parte dei cittadini di Venezia la possibilità di aspirare a questa carica, limitandola solo ai membri dell’aristocrazia ricca.

A seconda dei tempi e delle situazioni il doge agiva da condottiero o da supremo notaio. Per cui si può solo dire che sempre all’interno dell’ordinamento politico vi erano una serie di disposizioni che limitavano pesantemente le prerogative del doge e perfino la sua stessa vita quotidiana: la funzione del doge era principalmente quella di rappresentante ufficiale di Venezia nelle cerimonie pubbliche e nelle relazioni diplomatiche con gli altri stati e di mostrarne la regalità pur senza regnare. L’unico potere effettivo che non fu mai sottratto al doge fu quello di comandare la flotta e guidare l’armata in tempo di guerra. Per il resto egli si limitava a sedere a capo della Serenissima Signoria, che era il supremo organo di rappresentanza dei sovrani di Venezia, e presiedere con essa a tutti i consigli della Repubblica, nei quali però il suo voto non aveva più valore di quello di qualunque altro membro.

Il doge aveva anche acquisito sin dalle origini connotazioni religiose, molto astratte fino all’arrivo delle spoglie dell’evangelista Marco a Venezia, nel 828. All’arrivo delle spoglie corrispose anche la costruzione della basilica di San Marco, cappella palatina e chiesa di Stato. Da questo momento in poi il doge divenne a tutti gli effetti Capo della Chiesa di San Marco. Nonostante questo titolo ci furono molte discussioni sul ruolo del doge all’interno della Chiesa stessa poiché al Concilio di Trento venne stabilito che non era un vescovo e nemmeno un principe. Infine, però, furono modificati i decreti conciliari per consentire al doge di partecipare alle cerimonie con gli stessi onori di vescovi e principi.