Impero e papato al tempo di Dante

Dante Alighieri
Sandro Botticelli, Ritratto di Dante, tempera su tela, 1495, Ginevra, collezione privata

Sui contrasti fra l’autorità laica (l’imperatore) e l’autorità religiosa (il papa) prese posizione anche Dante Alighieri (1265-1321).

La sua vita fu strettamente legata agli avvenimenti della politica fiorentina. Quando la lotta fra Guelfi Bianchi e Guelfi Neri si fece più aspra, Dante si schierò col partito dei Bianchi che difendeva l’indipendenza del Comune e si opponeva alle tendenze egemoniche di Papa Bonifacio VIII.

Le guerre intestine a Firenze, riflesso di quanto accadeva in Europa, portarono il poeta a elaborare una profonda riflessione sui rapporti tra papato e impero. A suo avviso la chiesa doveva essere esclusa da ogni intervento a finalità politica. Il suo unico compito doveva essere quello di guidare il genere umano alla vita eterna, dedicandosi alla cura delle anime.

Dante era, perciò, un vero e proprio sostenitore del potere imperiale e così, intorno al 1310, compose il De Monarchia, un trattato scritto in latino dove ribadiva il concetto di impero universale e quello della separazione dei poteri, già accennati nel Convivio e nella Commedia.

L’incipit con cui si apre l’opera riassume già il pensiero del suo autore:

“Due fini l’ineffabile Provvidenza ha posto dinanzi all’uomo come mete da raggiungere: la Felicità di questa vita, che consiste nella piena attuazione delle sue capacità, ed è raffigurata nel Paradiso Terrestre, e la Beatitudine della vita eterna, la quale consiste nel godimento della visione di Dio ed è raffigurata nel Paradiso celeste”.

Per Dante il fine ultimo dell’uomo è la felicità e Dio ha stabilito due somme autorità: il pontefice, che è la guida verso la felicità spirituale, ultraterrena, e l’imperatore, che è tutore della pace e della libertà. In tal modo l’imperatore e il pontefice appaiono come due autorità distinte e pienamente sovrane, ciascuna nel suo campo specifico di interesse, rispettivamente politico e spirituale.

L’imperatore, però, deve sempre al pontefice “quella riverenza che il figlio primo genito deve al padre”. In poche parole, papato e impero devono collaborare per garantire il pieno perfezionamento intellettivo e morale dell’uomo.

Dante con la sua idea di laicità dello Stato è un pensatore moderno e il suo contributo, rapportato al contesto storico in cui viveva, è stato di fondamentale importanza. La sua riflessione, sul tramonto del Medioevo, infatti, è un appello al rinnovamento e pone le basi alla rinascita del Quattrocento.

Concordo pienamente la critica rivolta da Dante al papato, in quanto è innegabile l’eccessivo e incessante desiderio di dominio da parte dei pontefici in quegli anni (e tuttora è evidente in alcuni casi l’interferenza dell’autorità religiosa in ambito strettamente politico), ma ritengo che, anche il ruolo giocato dagli imperatori il più delle volte fosse discutibile, poiché le loro pretese avevano spesso il potere di provocare disordini, confusione e indebolimento delle autorità civili, in particolar modo in Italia, dove le città erano dilaniate da lotte che vedevano parte dei cittadini schierati con l’imperatore e parte, invece, con il papa.