Da Eraclito ad Aristotele: la ricerca della realtà

Non si può discendere due volte nel medesimo fiume (…)

Così diceva Eraclito, più di duemila anni fa.

Sembra un’affermazione assurda, se non si tiene in considerazione un fattore importante che domina e condiziona la nostra vita in ogni momento: il tempo. Esso implica che ogni nostro istante non sia mai uguale all’altro e che noi non siamo mai gli stessi da un istante all’altro. In ogni momento noi non siamo più quello che eravamo un momento prima, il nostro corpo è cambiato, la nostra mente è cambiata, il nostro pensiero è un altro pensiero che lo si voglia o no. Ciò vale per noi come esseri umani, corpi vivi e mutevoli, ma anche per tutto ciò che ci sta attorno, compresi gli oggetti inanimati come l’acqua di un fiume.

Ne consegue un problema: se qualsiasi cosa intorno a noi cambia e non è più la stessa di prima, come possiamo identificarla con lo stesso nome?

Questo si chiedeva Cratilo, filosofo del V secolo a.C., discepolo di Eraclito. Se per quest’ultimo non era possibile bagnarsi due volte nello stesso fiume, per Cratilo, non sarà possibile bagnarsi neanche una volta, poiché l’acqua che bagna la punta del piede non sarà quella che bagna il tallone. Per questa ragione gli risulta impossibile dare un nome alle cose: il reale diventa inconoscibile.

Platone, per qualche tempo discepolo di Cratilo, se ne rese conto: le posizioni di Cratilo, come quelle di Protagora, di Gorgia e degli eristi, potrebbero rendere insensato ogni ragionamento umano. Per questo cerca di dimostrare l’esistenza di verità eterne ed immutabili, capaci di resistere alla corrosione del relativismo.

Ciò che percepiamo, afferma Platone, non è la realtà vera, vale a dire: tutto ciò che vediamo, sentiamo e tocchiamo è solo un’imitazione approssimativa della realtà eterna del mondo intelligibile, il Mondo delle Idee. Il nostro mondo si avvicina più che può a quello intelligibile, ma non sarà mai uguale, presenterà sempre delle differenze.

Sorge però un problema: con la supposizione platonica dell’esistenza di due universi distinti, intelligibile e sensibile, uno imitazione dell’altro, si è portati a distinguere il modello dalla sua copia e considerarli come idee separate.

Aristotele, allievo di Platone, osserva quindi che la separazione delle idee porta ad ammettere dei caratteri universali presenti nelle stesse realtà sensibili. Se tali caratteri sono intesi a loro volta come soggetti, ovvero come realtà aventi gli stessi caratteri delle realtà sensibili, si innesca un processo senza fine; per esempio: l’uomo sensibile, imitazione dell’uomo ideale, presenta delle caratteristiche tali per cui possa essere identificato in quella figura ideale; si dovrà ammettere quindi l’esistenza di un terzo uomo e si potrà continuare all’infinito.

Tale processo non permette di individuare l’unica realtà vera, bensì l’esistenza di infinite realtà. Ogni cosa è realtà e allo stesso tempo niente lo è, perché imitazione.

Una volta rifiutato il platonico mondo delle idee, Aristotele dà inizio alla sua ricerca della realtà basandosi sul fatto che quella sensibile è il mondo fisico, la natura. Per la prima volta, la fisica diventa oggetto di scienza, in quanto il suo oggetto è autentica realtà e non realtà dimezzata, descritta solo mediante un discorso verosimile, come affermava Platone. Per prima cosa dunque, Aristotele analizza il fenomeno che più caratterizza la natura: il mutamento.

Egli osserva che ogni volta si ha un divenire, una cosa priva di un determinato carattere, poi lo acquista. Tale processo ammette l’esistenza di tre principi:

  • il sostrato, ovvero la cosa che muta;
  • la privazione, cioè la mancanza di un certo carattere;
  • la forma, l’acquisto di tale carattere.

Al termine del mutamento il sostrato si comporta nei confronti della forma, come materia, cioè materiale plasmato, caratterizzato e determinato in un certo modo.

Oltre alle componenti di un mutamento, Aristotele considera i suoi momenti, ovvero le fasi di tale processo, e li distingue in potenza e atto. Si dice che la materia è in potenza quando essa non possiede ancora una forma ma ha tuttavia la capacità di acquistarla, e in atto quando la forma, non presente all’inizio, si presenta al termine di un mutamento come realtà dispiegata, realizzata.

Ora, sia il trinomio materia-privazione-forma, sia il binomio potenza-atto, sono presenti in tutte le cose che mutano, perciò si può dire che sono principi di tutte le cose, anche se non sono costituiti tutti dalla stessa realtà. Aristotele in questo modo spiega il divenire come passaggio dalla potenza all’atto, cioè dal non-essere, all’essere, come affermava invece Parmenide.

Secondo gli studi aristotelici, quindi, il mutamento è la realtà, anzi è ciò che più la caratterizza, poiché per definizione, la realtà è il mondo fisico, il mondo fisico è natura e ciò che la contraddistingue è il suo divenire.

Ciò che ho concepito seguendo i pensieri di Eraclito, Cratilo, poi Platone ed infine Aristotele, è una realtà sensibile inafferrabile; il mio scopo era inizialmente trovare un’immagine visiva di enti concreti che costituissero, appunto, la realtà, ma non mi è stato possibile individuarla precisamente. Per farlo dovrei fermare il tempo in modo da bloccare anche quel processo fondamentale, il mutamento, che sta alla base del divenire.

Data l’impossibilità dell’azione, si può considerare la realtà da un altro punto di vista, cioè come complesso delle mutazioni degli enti e non come immagine immutabile. Da ciò ne consegue che la realtà può essere percepita, ma non vista o toccata, in quanto non è un ente immobile, ma un complesso di enti in continuo divenire.

Un commento su “Da Eraclito ad Aristotele: la ricerca della realtà”

  1. Un appunto sulla “immagine del fiume” di Eraclito: in realtà essa non afferma che non si può entrare due volte nello stesso fiume; quella a cui fai riferimento tu è l’interpretazione parziale che ne dà Platone e che resta ancora la più famosa dopo più di duemila anni, in cui per altro non si è smesso di studiare Eraclito.

    Il luogo autentico della metafora è il frammento 12, che recita:
    “Mentre essi entrano negli stessi fiumi, diverse e ancora diverse acque scorrono verso di loro”.
    Non tutti i critici siano unanimi nell’interpretare questo frammento, però io concordo con quelli che fanno presente che l’identità dei fiumi non è negata, bensì presupposta (“mentre essi entrano negli stessi fiumi…”).
    E’ vero che le acque in cui ci si immerge sono sempre diverse, ma il “punto” della metafora non è il costante divenire delle cose (sebbene presente), nè l’irreversibilità del tempo, nè l’unicità delle esperienze o degli individui. Ciò che viene enfatizzato guardando il fr. 12 nel suo insieme è la conservazione di un’identità (dei fiumi in questo caso) nonostante il “flusso del cambiamento”.

    Considerata in generale, l’immagine del fiume rafforza quella del fuoco: la preservazione di una forma unitaria a fronte del divenire in cui la “sostanza” o la materia che costituisce le cose cambia in continuazione.

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