La politica coloniale inglese e francese

La crisi politica ed economica degli anni Venti e Trenta aprì la strada a cambiamenti politici radicali in gran parte del mondo.
In Europa la crisi del dopoguerra contribuì alla nascita e alla diffusione di dittature e regimi totalitari. Tra gli stati più importanti, solo Francia e Gran Bretagna ressero alla crisi: in questi paesi le classi dirigenti riuscirono a mantenere sotto controllo i partiti socialisti che prospettavano rivoluzioni imminenti, e a garantire la stabilità politica entro il sistema parlamentare e democratico. Anche in questi stati, però, si affermarono le forza moderate e conservatrici.
Negli altri paesi, invece, i sistemi parlamentari non ressero alla spinta delle forze che premevano per una svolta autoritaria. L’ungheria fu il primo paese a sperimentare l’autoritarismo di destra: vennero abolite le libertà politiche e sindacali ed si eliminò ogni forma di opposizione. In Italia nel 1922 andò al governo Benito Mussolini, che in poco tempo organizzò un regime dittatoriale. In Bulgaria nel 1923 si impose la dittatura. Seguirono l’Albania, il Portogallo, la Iugoslavia e, negli anni Trenta, l’Austria, la Germania, la Romania, la Polonia, i Paesi Baltici, la Finlandia, la Spagna. La Russia invece era ormai da tempo sottoposta alla dittatura comunista. L’Europa era dunque quasi totalmente occupata da regimi autoritari.
In questo contesto, Francia e Inghilterra dovettero fronteggiare anche la crescita dei movimenti indipendentisti e nazionalisti nelle colonie, in Africa e in Asia. Le popolazioni coloniali rivendicavano una maggiore autonimia e una partecipazione nell’amministrazione dei rispettivi paesi. L’estensione dei movimenti anticolonialisti fu determinata essenzialmente da quattro motivi:

  • l’Unione Sovietica svolse un’azione a favore dei movimenti anticolonialisti, nell’ottica di liberare gli “schiavi”
  • la pubblicazione nel 1919 dei Quattordici punti del presidente americano Wilson, due dei quali facevano riferimento alle questioni coloniali riconoscendo i diritti delle popolazioni indigene, aveva creato qualche illusione
  • durante la guerra in Occidente, i combattenti avevano conosciuto le idee democratiche e quando ritornarono nelle loro terre si impegnarono a lottare per l’emancipazione della loro patria
  • reparti militari coloniali avevano partecipato alla guerra e si aspettavano come ricompensa una maggiore autonomia

Nel primo dopoguerra, dunque, il nazionalismo si diffuse nelle colonie. Tuttavia, la decolonizzazione vera e propria si sarebbe realizzata solo dopo la seconda guerra mondiale.

La politica coloniale inglese

La crisi del dopoguerra provocò una ristrutturazione dell’immenso impero coloniale inglese: la Gran Bretagna rinunciò a parte del controllo politico per garantirsi invece un dominio economico. Le sue colonie vennero organizzate in forme diverse. Le colonie con una forte componente di popolazione bianca (Canada, Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica) ottennero una crescente autonomia politica. Nel 1931 il Parlamento britannico li riconobbe come stati sovrani (Statuto di Westminster) ed entrarono a fare parte del Commonwealth.
La Gran Bretagna deteneva altri possedimenti in Africa, in Asia e nel Pacifico. Su questi territori vi fu soprattutto un controllo economico finalizzato essenzialmente a creare un’area commerciale privilegiata all’interno dell’impero coloniale.
In Iraq e in Arabia Saudita gli inglesi mantennero il controllo dei pozzi petroliferi.
In egitto, per esempio, nacque un regno autonomo ma la Gran Bretagna controllava il Canale di Suez e si riservò il diritto di mantenere delle truppe.
La situazione era però più difficile in India, dove nel dopoguerra si sviluppò un consistente movimento nazionalista guidato da Mohandas Karamchand Gandhi, che iniziò una lunga lotta all’insegna della “non violenza” per l’indipendenza del suo paese.
Vi erano colonie inglesi anche in Palestina, dove si andavano ponendo le basi dei drammatici conflitti tra arabi e israeliani, che continuano tutt’ora. Cresceva il numero dei coloni ebrei che emigravano in Palestina con l’obiettivo di fondarvi uno Stato ebraico (sionismo).

La politica coloniale francese

La politica attuata dai governi francesi verso le colonie fu molto diversa da quella britannica. L’atteggiamento del governo mirava infatti ad assimilare le colonie in una “grande Francia”. Questa politica centralistica generò numerose opposizioni sia in Medio Oriente, dove la Francia aveva ottenuto il mandato dalla società delle Nazioni sulla Siria e il Libano, sia in Africa settentrionale.
In Marocco, in Tunisia e in Algeria si diffusero movimenti anticolonialisti di vario orientamento: sia democratico-socialista, sia religioso (di matrice islamica), sia nazionalista. Alle ricerche di autonomia, il governo francese reagì sempre con una dura repressione. Anche in Indocina, negli anni Venti, si formò un movimento che rivendicava maggiore partecipazione alla vita politica. Le riforme concesse dai francesi furono del tutto inadeguate e la lotta si radicalizzò: ci furono così tentativi insurrezionali organizzati dai nazionalisti e dal partito comunista indocinese, fondato nel 1930.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *