Tutti gli articoli di Viola Scarselli

La vita: “un pendolo tra noia e dolore”

Schopenhauer
Schopenhauer

La vita è un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia. Tutto soffre, persino l’amore è un’illusione. Il filosofo argomenta così: l’amore puro non esiste in quanto, in fondo, è espressione del nostro egoismo, del nostro tornaconto personale e strumento della Natura per perpetuare la vita. Noi nobilitiamo l’amore, lo idealizziamo, ma in realtà è l’espressione del “desiderio sessuale”. E il desiderio, nel momento in cui non è appagato, è mancanza che produce “dolore”. Una volta poi che viene appagato, si arriva alla noia e poi ad un nuovo desiderio, e così via.
Il filosofo non solo spoetizza l’amore, ma tralascia l’aspetto positivo del desiderio (che non esprime solo mancanza, ma anche la gioia dell’attesa) e del godimento. Vede solo ciò che è negativo.
La vita è dunque desiderio insaziabile, manifestazione di un’unica Volontà, senza causa né scopo, che è la radice noumenica, cioè il fondamento metafisico di ogni cosa.
Ma come liberarsi allora da questa “terribile” vita che ci si prospetta?
Egli in primo luogo condanna il suicidio: non è un buon rimedio al problema. La soppressione di un singolo individuo, oltre ad esser un estremo atto di volontà, non comporta alcun danno alla Volontà stessa, che continua ad esistere nel resto del mondo.
Vengono così proposte tre vie di “salvezza”.
L’arte, contemplazione disinteressata degli archetipi (non “questo amore”, ad esempio, è l’oggetto dell’arte, ma “l’amore”, il modello di amore), libera l’individuo dalla catena quotidiana dei desideri e dei bisogni.
La “pietà”, amore disinteressato verso il prossimo, nasce dal sentire come nostro il dolore altrui e ci libera dall’egoismo.
E, per ultima, l’ “ascesi”: la soppressione di ogni desiderio di vita.
Schopenhauer evidenzia quest’ultima come il punto di arrivo, il traguardo a cui bisogna giungere per essere davvero liberi dall’infinita catena di desideri, noia e dolore che fin qui ci ha perseguitati. Non mi convince per nulla!
Se noi siamo manifestazioni della Volontà, come potremmo sottrarci ad essa? Se è davvero parte di noi, come possiamo sopprimerla senza autodistruggerci? E infine, la nostra eventuale volontà di liberarci dalla Volontà, non sarebbe, comunque, un atto di volontà? Mi sembra una di quelle conclusioni campate per aria che ogni studente, almeno una volta nella sua carriera scolastica, ha scritto per finire in fretta il tema di italiano e consegnarlo prima al professore.

La politica coloniale inglese e francese

La crisi politica ed economica degli anni Venti e Trenta aprì la strada a cambiamenti politici radicali in gran parte del mondo.
In Europa la crisi del dopoguerra contribuì alla nascita e alla diffusione di dittature e regimi totalitari. Tra gli stati più importanti, solo Francia e Gran Bretagna ressero alla crisi: in questi paesi le classi dirigenti riuscirono a mantenere sotto controllo i partiti socialisti che prospettavano rivoluzioni imminenti, e a garantire la stabilità politica entro il sistema parlamentare e democratico. Anche in questi stati, però, si affermarono le forza moderate e conservatrici.
Negli altri paesi, invece, i sistemi parlamentari non ressero alla spinta delle forze che premevano per una svolta autoritaria. L’ungheria fu il primo paese a sperimentare l’autoritarismo di destra: vennero abolite le libertà politiche e sindacali ed si eliminò ogni forma di opposizione. In Italia nel 1922 andò al governo Benito Mussolini, che in poco tempo organizzò un regime dittatoriale. In Bulgaria nel 1923 si impose la dittatura. Seguirono l’Albania, il Portogallo, la Iugoslavia e, negli anni Trenta, l’Austria, la Germania, la Romania, la Polonia, i Paesi Baltici, la Finlandia, la Spagna. La Russia invece era ormai da tempo sottoposta alla dittatura comunista. L’Europa era dunque quasi totalmente occupata da regimi autoritari.
In questo contesto, Francia e Inghilterra dovettero fronteggiare anche la crescita dei movimenti indipendentisti e nazionalisti nelle colonie, in Africa e in Asia. Le popolazioni coloniali rivendicavano una maggiore autonimia e una partecipazione nell’amministrazione dei rispettivi paesi. L’estensione dei movimenti anticolonialisti fu determinata essenzialmente da quattro motivi:

  • l’Unione Sovietica svolse un’azione a favore dei movimenti anticolonialisti, nell’ottica di liberare gli “schiavi”
  • la pubblicazione nel 1919 dei Quattordici punti del presidente americano Wilson, due dei quali facevano riferimento alle questioni coloniali riconoscendo i diritti delle popolazioni indigene, aveva creato qualche illusione
  • durante la guerra in Occidente, i combattenti avevano conosciuto le idee democratiche e quando ritornarono nelle loro terre si impegnarono a lottare per l’emancipazione della loro patria
  • reparti militari coloniali avevano partecipato alla guerra e si aspettavano come ricompensa una maggiore autonomia

Nel primo dopoguerra, dunque, il nazionalismo si diffuse nelle colonie. Tuttavia, la decolonizzazione vera e propria si sarebbe realizzata solo dopo la seconda guerra mondiale.

La politica coloniale inglese

La crisi del dopoguerra provocò una ristrutturazione dell’immenso impero coloniale inglese: la Gran Bretagna rinunciò a parte del controllo politico per garantirsi invece un dominio economico. Le sue colonie vennero organizzate in forme diverse. Le colonie con una forte componente di popolazione bianca (Canada, Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica) ottennero una crescente autonomia politica. Nel 1931 il Parlamento britannico li riconobbe come stati sovrani (Statuto di Westminster) ed entrarono a fare parte del Commonwealth.
La Gran Bretagna deteneva altri possedimenti in Africa, in Asia e nel Pacifico. Su questi territori vi fu soprattutto un controllo economico finalizzato essenzialmente a creare un’area commerciale privilegiata all’interno dell’impero coloniale. Continua la lettura di La politica coloniale inglese e francese

Movimento Operaio: origini differenti ma uniti in opposizione alla Prima Guerra Mondiale

Il termine “movimento operaio” sta a indicare l’insieme delle organizzazioni (sindacali, politiche, cooperative, assistenziali e culturali) che accolgono, rappresentano e promuovono gli interessi dei lavoratori salariati. Esso accompagnò la nascita dell’organizzazione sociale del lavoro avviata con la Rivoluzione Industriale in Inghilterra tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento e quindi diffusa in Europa occidentale e negli Stati Uniti.
Il movimento operaio ebbe sempre forti caratteristiche nazionali.
Corteo che inneggia al potere operaioLe prime organizzazioni avevano prevalente carattere di tutela sindacale e di mutuo soccorso, ma dovettero in primo luogo battersi per lo stesso diritto di associazione.
Le rivoluzioni del 1848 (nelle quali si schierò in prima fila il proletariato urbano, ancora in gran parte disorganizzato) portarono alla nascita del socialismo scientifico, che per primo volle dare coscienza di sé, capacità organizzativa e fini universali agli operai “in quanto classe” (distinti cioè dal resto della società e contrapposti alla classe capitalistica detentrice del potere economico e politico).
Da quando questo programma diede vita alla Prima Internazionale (1864), col termine “movimento operaio” si intesero prevalentemente le organizzazioni di ispirazione anarchica e socialista. Si creò in tal modo una grave confusione tra definizione di “movimento operaio” fondata sul radicamento sociale (il lavoro salariato in quanto tale) e definizione fondata sull’ispirazione ideologico-politica. Questa confusione fu in seguito fonte di atteggiamenti settari e di gravi contrapposizioni all’interno del movimento internazionale e di ciascun paese, divisosi in tronconi distinti a seconda delle basi culturali e delle finalità politiche perseguite.
Già la Prima Internazionale, dopo la sanguinosa prova della Comune di Parigi (1871), finì per sciogliersi proprio a causa delle divergenze tra anarchici e socialisti.
In ciascun paese in realtà sorgevano organizzazioni sindacali e assistenziali anche al di fuori di questo filone, soprattutto per iniziativa del cosiddetto socialismo cristiano e delle Chiese: nacquero così, per esempio, la YMCA (Young Men’s Christian Association) in Gran Bretagna e gli Istituti di Bethel negli anni settanta in Germania.
In quel periodo anche in Italia, oltre alle Società di mutuo soccorso laiche, sorsero, grazie all’opera dei congressi, quelle di matrice cattolica. Ma ciò che soprattutto distingueva i due filoni principali del movimento operaio era che quello cristiano perseguiva scopi esclusivamente assistenziali e caritativi, senza mettere in discussione l’ordinamento della società, mentre nel filone socialista prevalevano i fini sindacali e politici di partecipazione collettiva sia alla lotta per l’emancipazione del lavoro sia, soprattutto, per la partecipazione al potere politico.
Questa connotazione “di classe” si espresse nella creazione dei partiti socialisti prima e dopo la nascita della Seconda Internazionale. Essa fu nettamente controllata dal Partito Socialdemocratico tedesco, modello di organizzazione di massa capace di incidere profondamente sulle condizioni di vita civile dei lavoratori, mentre sui rapporti di forza con gli imprenditori esercitavano il loro determinante peso i liberi sindacati socialisti.
Mentre il Partito operaio socialdemocratico russo era costretto a nascere in clandestinità e a esercitare solo una ristretta influenza, in Francia il Partito operaio e  il Partito Socialista Rivoluzionario si fusero e la Confederazione Generale del Lavoro raccolse in un’unica organizzazione le varie associazioni.
Analogo processo diede vita in Italia al Partito Socialista Italiano e alla Cgl, mentre su ampie fascie di lavoratori una forte incidenza veniva esercitata dalla dottrina sociale della Chiesa, alla quale si ispirarono i sindacati cosiddetti “bianchi” sia in Francia che in Italia, nonché la Internazionale Cristiana del 1908. Quarto Stato, Pellizza da Volpedo
Molto diverso in Gran Bretagna fu lo sviluppo del Trade Union Congress, che raggruppò diverse leghe sindacali (le quali però mantennero gran parte della propria autonomia) del partito laburista, che a sua volta era federazione sia di sindacati, sia di gruppi politici a carattere locale.
Ancora più difficile e contrastato fu il processo di organizzazione negli Stati Uniti: alle differenze ideologiche e professionali si sovrapponevano,  spesso ancor più gravi e volutamente approfondite dalla propaganda padronale, le differenze etniche e culturali. Vari furono i tentativi di unificazione che lasciarono il passo all’American Federation of Labor (nato nel 1886), organizzazione sindacale tesa alla difesa delle aristocrazie operaie anglosassoni. Un’organizzazione politica di stampo “operaio” con pretese “di classe” non riuscì però mai a decollare.
Ogni partito dunque aveva alle spalle una storia differente ma ciò che unificò ampiamente il movimento operaio da uno stato all’altro fu la Prima Guerra Mondiale: l’opposizione a un conflitto di così vaste proporzioni crebbe in tutti i paesi coinvolti e assunse spesso carattere di sollevazione popolare.
Negli anni immediatamente precedenti la guerra, la Seconda Internazionale Socialista prese posizione contro un evento considerato estraneo agli interessi del proletariato e voluto dai capitalisti per portare avanti i loro progetti imperialisti. A livello locale prevalsero le ragioni degli interessi nazionali rispetto a quelle dell’internazionalismo operaio, perciò nel 1915 i socialisti pacifisti organizzarono una conferenza internazionale in Svizzera dove si ribadì con forza la condanna alla guerra e si propspettò l’idea di trasformare la guerra in rivoluzione proletaria. Questa tesi fu supportata soprattutto dal socialista russo Lenin, nel cui paese si arrivò persino all’abbandono di massa del fronte, seguito nel 1917 dalla Rivoluzione d’Ottobre.

Quando il criminale lo si vede dalla faccia

Cesare Lombroso
Cesare Lombroso
Nonostante il fatto che molte delle sue teorie più famose siano oggi abbondantemente sorpassate, di Cesare Lombroso si parla ancora.

Nella sua opera più celebre, L’uomo delinquente, il criminologo sosteneva che ci fosse un rapporto diretto tra i tratti somatici di una persona e la sua indole; dunque studiando attentamente il volto se ne poteva dedurre la pericolosità.
L’antropologia criminale fondata da Lombroso riscosse grande successo fin da subito e fu al centro di numerosi dibattiti. Medici e psichiatri furono attratti dal problema e il mito lombrosiano sorse. Almeno per un ventennio fu il più significativo “prodotto scientifico d’esportazione” italiano. Egli divenne una figura centrale, posta in relazione di volta in volta con Galileo e Beccaria, con Pasteur e Darwin.
Partendo dagli studi delle personalità di numerosi detenuti dell’ospedale del carcere di Torino, diede un personale apporto alla criminologia che fino ad allora aveva preso in considerazione esclusivamente l’aspetto sociologico del malato; ne nacque una “scienza” che univa le diverse discipline.

Ma in cosa consiste esattamente l’antropologia criminale? È una teoria che si proponeva di individuare i delinquenti da alcune caratteristiche somatiche non per punire, ma soprattutto per prevenire i crimini. Fino ad allora la criminologia poteva essere letta come il tentativo di comprendere e giustificare la miseria e le diversità che il capitalismo aveva prodotto dietro ad affermazioni di principio, libertà ed uguaglianza per tutti. Dunque il criminale non è altri che un emarginato che non per colpa sua si trova costretto a commettere il reato; naturalmente questa è una spiegazione semplicistica, ma non si discosta molto dall’analisi che Lombroso faceva dello status quo della disciplina ai tempi della pubblicazione della sua opera.
Egli interpretò le diversità del criminale come fondate sulla natura. Sosteneva che esistessero comportamenti, come l’infanticidio, l’antropofagia o l’uccisione dei vecchi, che non sono altro che la risposta a bisogni primari ed elementari dell’uomo e che il loro ripresentarsi non è altro che la presenza di aspetti primitivi nella società moderna; molti di questi comportamenti verranno considerati delitti dalla società, ma il delinquente in realtà non fa altro che manifestare ciò che è insito nella natura dell’uomo e che la maggior parte delle persone riesce a comprimere, ma alcuni hanno il bisogno di esternare. Fin qui l’antropologia criminale non presenta nulla di rivoluzionario, il problema nasce quando il suo autore cerca di legare questo ragionamento psichiatrico all’aspetto più propriamente fisico. Lombroso individua il principale tratto somatico del criminale nell’atavismo, cioè nell’avere delle caratteristiche fisiche che ricordino l’uomo primitivo, scimmiesche in un certo senso. Dunque la fronte sfuggente, segno anche di poca intelligenza, i seni frontali, la forma parabolica dell’arcata dentaria, il naso trilobato, le anomalie di pelle, di colori, di peluria, l’occhio ferino e la fisionomia selvaggia. Questi caratteri, secondo gli studi lombrosiani, erano più frequentemente riscontrabili tra i criminali rispetto al resto delle persone.

Esempio di criminale secondo Lombroso
Esempio di criminale secondo Lombroso

Il delitto non va dunque considerato come un semplice fatto: occorre studiarne la genesi e soprattutto l’autore da un punto di vista scientifico, antropologico, psicologico, medico; è di per sé un dato naturale e sociale. Naturale perché il soggetto che delinque lo commette sotto la spinta di elementi che appartengono al proprio patrimonio biologico; sociale non soltanto in quanto si sviluppa in un ambiente favorevole, ma anche perché la società ha il diritto di difendersi. E dunque il criminale non sarà punito in rapporto esclusivamente al fatto specifico: dovrà piuttosto essere considerato un disgraziato o un malato dalla cui pericolosità occorre premunirsi.

Per queste sue teore, Lombroso fu prima di tutto un medico psichiatra e nella sua professione fu un luminare. Bisogna però sottolineare che non fu considerato né in Italia né all’estero un antropologo già dai suoi contemporanei: egli era troppo superficiale nei metodi e troppo estraneo ad una disciplina che tentava di giungere a nuove sicurezze ed a generalizzazioni limitate ma certe. Certo è che “L’uomo delinquente” fu pubblicato nel 1876 e, sebbene già negli anni Venti di questo secolo l’autore era considerato un ciarlatano, nel periodo della sua piena attività gli giungevano omaggi, scritti ed oggetti che ne fecero il punto di riferimento incontrastato dello studio di ciò che si pone al di fuori della norma.