Tutti gli articoli di Miriam

Viva la sincerità?

Chi non ha mai mentito? E non voglio obiezioni da parte di falsi buonisti sul fatto che tutti, e dico veramente tutti, qualche bugia nella propria vita l’abbiano detta, che si tratti di piccole frottole o di sostanziose falsità. Ma cosa induce l’uomo a mentire?
Ci sono molteplici e differenti motivi che inducono la mente umana a nascondere la verità, coprendola con una bugia: a volte è per puri scopi personali, per apparire chi non si è; altre per paura di assumersi le proprie responsabilità; altre ancore, per proteggere dal dolore una persona a noi cara. Vorrei soffermarmi soprattutto su quest’ultimo ragione, cioè sui casi in cui si mente per non ferire i sentimenti di chi ci sta di fronte, per non far soffrire le persone cui vogliamo bene. Sembra un paradosso: mentire a una persona perché le si vuole bene. Eppure è così.
Lo so. Ora mi direte che le bugie non portano da nessuna parte, che se si tiene a una persona, bisogna dirle sempre la verità, qualunque essa sia. Son d’accordo; o quasi.

Credo sia capitato anche a voi di dover scegliere se dire o meno una “brutta” verità a qualcuno: cosa avete fatto in quella situazione? Cioè, il mio dubbio è: una spiacevole verità è davvero migliore di una consolante bugia, o di una “bugia a fin di bene”? Se sapete che la verità farà star male, recherà solo dolore, farà tormentare l’anima di chi vi sta di fronte, senza che egli possa far nulla per migliorare le cose, mentre una piccola bugia magari gli solleverà il morale, voi cosa fareste? Non sto dicendo di illuderlo, ma di rendergli più dolce qualcosa che sarebbe amaro; dirgli una mezza verità, perché forse l’altra metà farebbe soltanto male. Non c’è nulla di sbagliato in fondo, se il male arrecato dalla bugia è minore di quello causato dalla verità, giusto? Però…
Però, una bugia è pur sempre una bugia, e come tale verrà a galla. Una menzogna, una volta scoperta, anche se a fin di bene, poi causerà doppio dolore: la sfiducia nella persona che l’ha detta e il dover affrontare la dura verità.
Quindi cos’è meglio: lasciar che qualcuno viva serenamente, o persino felicemente, in una piccola falsità oppure destarlo e mostrargli la difficile, aspra e irrisolvibile realtà? Voi cosa ne pensate?

La concezione della morte dopo il ‘300

«A peste, fame et bello, libera nos, Domine» [oh Signore, liberaci dalla peste, dalla fame e dalla guerra]: era questa la principale invocazione che durante il XIV secolo il popolo di tutta Europa aveva elevavato a Dio.

Agli inizi del Trecento le città europee e i comuni italiani avevano raggiunto un grado abbastanza alto di prosperità: nacquero società commerciali di importanza internazionale, si svilupparono nuove attività manifatturiere, vi fu quindi un periodo di maggiore sviluppo economico, con aumento della produzione agricola e un notevole incremento demografico. Ma questo benessere finì presto.
Infatti, il XIV secolo fu caratterizzato da una profonda crisi economica, sociale e politica. Ci furono forti cambiamenti climatici (intere annate di pioggia, stagioni sempre o troppo fredde o troppo umide o troppo secche) che provocarono numerose carestie. Queste portarono all’indebolimento della popolazione, che divenne più esposta alle epidemie, in particolare di peste, che dal 1348-1349 fino ai primi decenni del Quattrocento colpirono quasi tutto il continente, con un conseguente crollo demografico.
Ed è proprio delle conseguenze della peste che voglio parlare, in particolare della diversa concezione della morte che essa presentò.

Durante quasi tutto il Medioevo la morte era vista come un traguardo a cui aspirare ed era attesa con la tranquilla, rassegnata consapevolezza della fine. Essa, per altro, cristianamente intesa, non era una cosa di cui dolersi: numerose testimonianze dimostrano che la morte era una fine attesa ardentemente o addirittura invocata (si basti pensare al “Cantico delle creature”, in cui San Francesco esprime la sua lode a Dio per la nostra fine terrena). Tuttavia, a partire dal Trecento, accanto a questa idea “consolante” della morte ne apparve lentamente un’altra.

L’elevata mortalità dovuta all’epidemia di peste rese l’approccio con l’idea della morte molto diverso. La vita troppo breve ed il timore della malattia spinsero gli uomini ad essere amareggiati nel dover abbandonare l’esistenza, a considerare quindi l’età che passava come una punizione: iniziarono a sentire così la necessità di vivere al meglio ogni momento, di godere delle gioie della vita. Col maggior diffondersi della peste in Europa, questo nuovo amore per l’esistenza terrena si faceva sempre più forte, portando di conseguenza orrore per la morte ed rimpianto per la vita.

Una visione, quindi, di paura per la vita dell’aldilà, di rimpianto per l’esistenza corrente, ma comunque di piena coscienza dell’inevitabilità della fine terrena. Tuttavia, pur assumendo un nuovo terribile aspetto, pur essendo considerata come una tragedia misteriosa (per la rapidità e la brutalità con cui arrivava), la morte divenne anche una presenza costante, un fatto di tutti i giorni: era diventata familiare. Infatti gli artisti (dando il via a una vera e propria arte macabra) presero a rappresentare nelle loro opere vivi e morti gli uni accanto agli altri, esprimendo in tal modo la fragilità dell’esistenza e la consapevolezza della morte.

E al giorno d’oggi la nostra concezione della morte qual è? È mutata rispetto a questa? O anche noi proviamo veramente paura della morte?
Ma indipendentemente dal nostro pensiero, credo che sia fondamentale sottolineare una cosa, che gli europei del Trecento avevano ben capito e che forse noi oggi a volte dimentichiamo: la vita è una e breve e, quindi, va vissuta al meglio, tra gioie e dolori.

Socrate: fastidioso tafano o amorevole levatrice?

Giornata soleggiata. Leggera brezza. Sei immerso nel verde di un meraviglioso giardino, all’ombra di un albero. Tutto è tranquillo. Ma ecco che questa tua serenità finisce: in agguato c’è il fastidioso insetto di turno, che arriva all’improvviso e inizia a ronzarti intorno e a punzecchiarti. Tu non stavi facendo niente di male, cercavi solo un po’ di calma, e invece ora sei di nuovo “sveglio”, tornato alla realtà.

Questo per farvi capire come si sentivano gli abitanti dell’antica Atene quando, girovagando per la città, godendosi una tranquilla passeggiata, si imbattevano in Socrate. Questo (filosofo del V secolo a.C.) era considerato una vera scocciatura per gli ateniesi, a tal punto da meritarsi l’appellativo di tafano, in quanto riusciva a “smuovere” ogni cittadino, lo punzecchiava per stimolarlo. Ma veramente Socrate era così seccante, così irritante, così sgradevole?

La filosofia, a partire da Socrate, muta radicalmente: abbandona lo scenario della natura e inizia a concentrarsi più sull’uomo e sui suoi problemi, che possono essere di carattere morale, religioso, politico, ecc. Infatti Socrate fu, con tutta probabilità, il primo  filosofo a vedere la natura dell’uomo espressa nella sua coscienza e nella sua visione interiore. Sulla base di questa convinzione, egli passò tutta la sua vita a interrogare ed esaminare la gente, sia per far comprendere loro l’importanza di questa dimensione interiore, sia per far si che essi si migliorassero attraverso la conoscenza. Già, perché per Socrate l’obiettivo di ogni uomo è essere felice, e la felicità si raggiunge solo facendo il bene. Ma come si può distinguere il bene dal male? Lui ne era sicuro: grazie alla conoscenza, attraverso il sapere. Ma come posso arricchire la mia anima di sapere? Come posso fare chiarezza dentro di me? Semplice: con il dialogo, con il confronto, attraverso la “fecondazione” con un’altra anima. Così, Socrate andava in giro interrogando su qualsiasi questione i suoi interlocutori, che nella maggior parte dei casi credevano di sapere tutto dell’argomento; ma egli, dichiarandosi tuttavia ignorante, riusciva sempre a confutare le loro ipotesi. Poi, grazie all’arte della maieutica, ossia l’arte della levatrice, come sua madre aveva aiutato le gestanti a partorire, allo stesso modo Socrate si comportava con l’anima dei suoi interlocutori, aiutandoli a “partorire” non bambini, ma pensieri e discorsi. Il suo intento era stimolare le menti, attivarle, renderle fruttuose, smuoverle dalla convinzione di sapere, invogliarle ad avvicinarsi quanto più possibile alla verità.

Allora, dopo aver detto tutto ciò, secondo me, Socrate è più definibile non come un fastidioso tafano, ma come una dolce levatrice, a cui, alla fine del suo lavoro, bisogna dire grazie. Grazie per averci aiutato a “partorire” ciò che è dentro di noi; grazie per il contributo a migliorare la nostra anima.

E voi cosa ne pensate?

La parola: strumento di persuasione?

Molti si limiterebbero a definirla semplicemente come un mezzo di comunicazione; altri come uno strumento di manifestazione della verità; altri ancora come espressione del pensiero. Ma Gorgia, sofista del VI secolo a.C., non sarebbe affatto d’accordo. Lui, che della parola è un grande esperto, afferma:

La parola è un gran dominatore che, pur dotato di corpo piccolissimo e invisibile, compie le opere più divine . Essa può far cessare il timore, togliere il dolore, dare una gioia, accrescere la compassione; sa ingannare e persuadere la mente. Chi la ascolta è invaso da un brivido, dal terrore, da una compassione che strappa le lacrime e da una struggente brama di dolore. Il fascino divino che suscita la parola è anche generatore di piacere e può liberare dal dolore. La forza dell’incantesimo, accompagnandosi all’opinione dell’anima, la seduce, persuade e trasforma per mezzo del suo incanto.

Quindi secondo Gorgia la parola è un’arma pericolosa, un’arte magica che incanta l’ascoltatore rendendolo suo schiavo; un mezzo potentissimo di persuasione, che agisce non mediante argomenti che convincono l’intelletto, ma in maniera inconscia, rendendo la consapevolezza di chi ne subisce il fascino nulla. Per lui la parola non è un mezzo di verità, cioè non serve per esprimere come stanno veramente le cose, ma è un tentativo di stimolare determinate emozioni e comportamenti: insomma è una sorta di “inganno”. E in fondo, come dargli torto? Chi non è stato mai sedotto da un discorso ben argomentato, coinvolgente, da belle parole che magari di per sé non han gran valore, ma dette nella maniera giusta sanno conquistare il tuo interesse?
Tuttavia, forse Gorgia esagera un po’, poiché crede che sia importante “solo” come si esprima un discorso e come lo si argomenti, cioè per lui il tutto assume valore rispetto alla sola abilità dell’oratore nel parlare, e non ha la ben che minima importanza il vero contenuto delle sue parole. Questo, nella realtà, non è del tutto vero, poiché per quanto un discorso possa essere affascinante, ipnotico ed elaborato, deve avere anche un minimo di credibilità per conquistare veramente. Ma comunque condivido pienamente l’idea che il linguaggio abbia una grande potenza e che debba essere maneggiato con molta cura, in quanto non è solo pericoloso per l’ascoltatore, ma anche per chi lo usa: è un’arma ingannatrice a doppio taglio.

Che importanza ha la filosofia?

Nelle scuole superiori è riservata particolare attenzione allo studio della filosofia, che però, spesso, risulta non molto interessante e di difficile comprensione agli occhi degli studenti. Lo studio di questa materia viene visto come noioso e inutile: una vera perdita di tempo. Ma in realtà, la filosofia è di grande importanza per l’uomo, per svariate ragioni.

La parola “filosofia” fece la sua comparsa verso la fine del V secolo a.C. in Grecia e significa letteralmente “amore per il sapere”. Quindi il filosofo è una persona che desidera conoscere, che non accetta le “verità” che gli vengono proposte, ma le mette in dubbio; egli si pone domande e guarda la vita con occhio critico .

La filosofia, secondo Aristotele (uno dei più grandi filosofi della storia antica), nasce dallo stupore, dalla curiosità, dal meravigliarsi a tal punto di ciò che ci circonda fino a chiedersi “perché?”. Quindi essa è un atteggiamento di curiosità (e non un’attività intellettuale), che tutti possono adottare. Già, proprio tutti. Perché se è vero che far filosofia equivale a porsi domande, a formulare dei “perché”, allora anche il bambino nella sua natura è un po’ filosofo.

Chi fa filosofia sottopone ad esame le credenze della gente su se stessa, sulla natura, sul mondo, per sperimentare se sono fondate, sostenibili, giustificabili. Il filosofo non dà mai nulla per scontato, ma cerca sempre di analizzare le ragioni delle scelte, dei comporatamenti, delle idee. Quindi un aspetto molto importante della filosofia è che accresce lo spirito critico di una persona, aumenta la sua voglia di esplorare, di analizzare, di esaminare, aiuta a mettersi in discussione, a porsi domande intelligenti e permette di affrontare problemi comuni in modo flessibile.

La filosofia è la scienza dell’intero, che si occupa del “conoscere” in generale, e quindi permette di analizzare tutto con una grande varietà di metodi e di idee; consente di guardare gli stessi argomenti che studiano le altre sienze con occhi diversi. Essa è un modo razionale di osservare il mondo.

Lo studio della storia della filosofia ci aiuta ad arrivare al possesso di noi stessi, a comprendere meglio la nostra mente grazie alla conoscenza dei pensieri di altri venuti prima di noi. Quindi, le diversità delle opinioni ci aiutano a crescere interiormente.

Allora io mi chiedo: come si può affermare che la filosofia sia inutile?