ESAMI DI STATO

La scuola è, notoriamente, un elefante conservatore, tardo e goffo nei movimenti, appesantito da una burocrazia ottocentesca. Quest’ultima, marginalmente scalfita da alcuni timidi tentativi di modernizzazione e snellimento, celebra ogni anno a fine giugno, agli esami di stato, i suoi squallidi fasti. Ordina, sotto carnevalesca pena di inapplicabili sanzioni, il ritiro dei cellulari, lo stacco di internet e il divieto di utilizzo delle calcolatrici scientifiche. Dopo aver timidamente fatto presente ai docenti, in corso d’anno, che forse è il caso di prendere in qualche considerazione l’idea di aggiornarsi alle nuove tecnologie, li rassicura nelle loro peggiori abitudini imponendo agli studenti, in occasione degli esami, di tornare alla biro e di fingersi (loro, nati nell’era del digitale!) uguali identici ai giovani (analogici) di cento o duecento anni fa: di dimenticarsi di essere teste pensanti e di reinventarsi come teste farcite di nozioni passivamente assimilate e ripetute in colloqui d’esame tutti giocati sul tema del “ricordare”. Quante volte, durante i colloqui, si sente pronunciare questo verbo! D’accordo, l’ha detto anche Dante che “non fa scienza sanza lo ritener l’avere inteso”: ma, vivaddio, ci sono altre dimensioni della storia culturale di ciascuno di noi, e ben più importanti! E se pensiamo che tutto lo studio dell’ultimo anno (quando c’è, naturalmente) viene finalizzato a questo squallido rituale ottocentesco, vien da chiedersi se la scuola, al di là del suo apparato amministrativo, autoritario e sanzionatorio, abbia ancora un senso e un ruolo nella formazione delle nuove generazioni.
Che dire, poi, dei bolli di ceralacca, degli esiti delle prove scritte pubblicati nel punteggio totale con soltanto la facoltà di richiedere la certificazione del punteggio ottenuto in ciascuna di esse, delle trovate degli azzeccagarbugli romani che un anno prima ti dicono di pubblicare i voti e l’anno dopo ti dicono di non farlo? Che dal principio sacrosanto della trasparenza virano disinvoltamente verso l’opacità e l’ambiguità senza ragione apparente e senza un credibile fondamento legislativo? Non si può dire a codesta gente, in codesto ministero, che il diciannovesimo e il ventesimo secolo sono finiti, che il ventunesimo è iniziato? Questi grigi e anonimi autori di circolari e di ordinanze mi ricordano quei soldati giapponesi nascosti nella giungla, che ancora negli anni ’60 del secolo scorso si rifiutavano di credere che la guerra fosse finita e che il Giappone l’avesse perduta! Adesso per fortuna sono passati più di sessant’anni e tutti questi irriducibili sono morti. Ma quando moriranno gli estensori delle circolari ministeriali? Perché non viene mai un ministro con lo staffile, a cacciarli fuori dal tempio? Fino a quando dovremo tollerare che una cosa tremendamente seria come l’educazione e l’istruzione dei giovani venga condizionata e inquinata da un ceto burocratico irresponsabile e autoreferenziale?
Nel mio ruolo di presidente i commissione, maleodorante di sudore, carta, inchiostro e ceralacca, mi dedico, in questa interminabile attesa di unapalingenenesi forse impossibile, al tentativo non sempre facile di salvare il maggior numero possibile di vite umane. Francamente, non mi sento mai di avallare bocciature (pardon: “esiti negativi”) che avrebbero come unico effetto un crudele e inutile prolungamento della reclusione scolastica. Oggi come oggi, nessuno (neanche i meno ricchi) si vede negare la libertà dopo cinque anni di reclusione: perché mai dovremmo incrudelire su incolpevoli studenti più che su delinquenti incalliti?

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