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Platone e la dialettica come confutazione

Papiro Oxyrhynchus con frammento de La Repubblica.
Papiro Oxyrhynchus con frammento de La Repubblica.

Platone fu un filosofo ateniese. Nacque ad Atene intorno al 428 a.C. da genitori aristocratici: il padre Aristone, gli impose il nome del nonno, cioè Aristocle. La sua data di nascita viene fissata da Apollodoro di Atene, nella sua Cronologia, all’ottantottesima Olimpiade. Fu un altro Aristone, un lottatore di Argo, suo maestro di ginnastica, a chiamarlo per la larghezza delle spalle “Platone”, che praticava una sorta di lotta o pugilato.

Un aspetto importante delle teorie filosofiche di Platone fu la “dialettica”: ne parlò per la prima volta nel Menone. In quest’opera contrappose il dialogo usato dai sofisti, che pur di raggiungere il loro obiettivo ingannavano la gente, a quello in cui le persone difendevano la loro tesi senza alcun tipo di inganno. Sempre nel Menone, Platone sostiene che la dialettica si serve di ipotesi e ne deduce le conseguenze per stabilire se sono vere oppure false.

Nel Fedone Platone perfeziona questa tesi precisando che la dialettica consiste nel formulare ipotesi riguardo a ciò che si vuole sapere e analizzando quali conseguenze ne derivano: se la conseguenza contraddice l’ipotesi, questa va considerata insostenibile e quindi falsa. Se invece esse non sono in contraddizione, l’ipotesi può essere considerata sostenibile. Questo però, non basta ad assicurarsi che essa sia vera: per ottenere questa assicurazione, bisognerà cercare di rendere “ragione ” dell’ipotesi, cioè di vedere se essa è riconducibile ad un’ipotesi più generale, ossia se è a sua volta una conseguenza di un’altra ipotesi, della cui verità si sia certi; e se anche di questa non si è certi, bisogna risalire ad un’ipotesi ancora più generale, finche non si giunga ad un punto sufficiente, cioè in un punto in culi la verità sia stata accertata con sicurezza.

Quando non si è certi di qualcosa o si vuole sapere qualcosa, la soluzione migliore è cercare delle ipotesi: in seguito bisogna cercar di distruggerle mediante autentiche confutazioni. L’ipotesi che riuscirà a resistere alla confutazione, una volta distrutte tutte le altre, sarà l’ipotesi vera.

Questo è affermato da Platone nella Repubblica.
La situazione presentata in precedenza, capita molto spesso allo studente quando si trova di fronte a un test a crocette in cui il professore come risposte, oltre a quella giusta ne ha inserite alcune ambigue che potrebbero sembrare giuste. Ora, come fa lo studente a capire qual è quella giusta? Innanzitutto deve aver studiato e poi sceglie la risposta giusta andando per esclusione: crea delle ipotesi e cerca di capire perché la risposta presa in considerazione può essere sbagliata. Quando vede che l’ultima ipotesi non “smontata” corrisponde a una risposta, solo a quel punto è certo che sta scegliendo la soluzione corretta.

L’illustrazione di questo procedimento fatta da Platone la troviamo nel Parmenide, dove si dice esplicitamente che la dialettica consiste nell’applicare alle idee l’argomentazione usata da Zenone di Elea a proposito delle realtà sensibili, che consisteva nel dimostrare una tesi mediante la confutazioni delle ipotesi.

Platone inoltre, afferma che non basta assumere, come faceva Zenone, una singola ipotesi e dedurne le conseguenze per vedere se esse sono contraddittorie fra di loro: bisogna assumere anche l’ipotesi opposta alla prima e dedurne ugualmente le conseguenze per vedere se anche queste siano contraddittorie fra di loro.
Ultimo ma non per importanza è “il principio di non contraddizione” che da Platone viene implicitamente formulato e che impone di considerare come falso un discorso contenente delle contraddizioni, ma anche la validità di quello che sarà chiamato il “principio del terzo escluso”, ossia del principio per cui, fra due tesi contraddittorie l’una rispetto all’altra, è necessario che una sia vera e l’altra sia falsa, così che, una volta individuata, mediante la confutazione, qual è quella falsa, si sa con sicurezza anche qual è quella vera.

Socrate aveva bisogno della cicuta come Gesù della crocefissione…

“Socrate aveva bisogno della cicuta come Gesù della crocefissione, gli serviva per realizzare la sua missione, per lasciare per sempre una macchia sulla democrazie ateniese.”

Così scrisse nel 1988 Isidor Feinstein Stone, un famoso giornalista americano che pubblicò nel medesimo anno una detective story su Il processo di Socrate.
Gesù doveva morire sulla croce per espiare i peccati e redimere il mondo. Venne crocefisso perché considerato bestemmiatore in quanto aveva dichiarato di essere il figlio di Dio.
Socrate fu condannato a morte perché accusato di corrompere i giovani: parlava ai ragazzi nelle piazze, nelle vie, attirando la loro attenzione. Questo lo fece scambiare per un sofista che attaccava spavaldamente la classe politica ateniese smascherandone l’ignoranza. Il filosofo quindi era considerato un personaggio scomodo ed inevitabilmente fu condannato nel 399 a.C. e morì nel medesimo anno costretto a bere un veleno.

Gesù prima di morire disse : “Padre perdonali … non sanno quello che fanno”. Socrate, alla fine del processo che lo condannò a morte: “È giunto ormai il tempo di andare, o giudici, io per morire, voi per continuare a vivere. Chi di noi vada verso una sorte migliore, è oscuro a tutti, tranne che al Dio”.
Secondo me queste frasi sono molto importanti: sigillano la fine della missione dei due uomini.

Dunque la considerazione di Stone è pertinente anche se molti la giudicano azzardata. Infatti il filosofo decise di morire per non violare le leggi e per  lasciare una macchia indelebile nella democrazia ateniese: anche se gli amici, a cominciare da Critone, ritennero che la soluzione migliore fosse quella della fuga dal carcere in cui Socrate era prigioniero, egli rifiutò l’aiuto. Infatti furono raccolti danari, per ottenere la complicità dei carcerieri e per sostenere le spese del trasferimento all’estero di Socrate assicurandone l’ospitalità. Bastava solo convincerlo ma egli rispose che, anche in questa circostanza, bisognava attenersi al principio ma soprattutto bisognava vivere bene, cioè secondo giustizia; perché non conta vivere ma vivere bene: questo principio, che tante volte condivise con gli amici e con quelli che con lui si intrattenevano a discutere, non poteva ma soprattutto non voleva tradirlo.

I giorni della collera divina

rappresentazione peste bubbonica

Tra il 1347 e il 1348 la gente cominciò a contrarre la peste che, quasi inevitabilmente, portava alla morte. Conosciamo tre tipologie di questa malattia :la prima, chiamata peste bubbonica si manifesta nelle ghiandole inguinali e ascellari, provocando ascessi e tumefazioni, la seconda interessa i polmoni e l’apparato respiratorio e viene chiamata peste polmonare, infine l’ultima, la peste setticemica, si manifesta con emorragie cutanee e dà origine a chiazze nere.
Da quanto ci riportano i cronisti dell’ epoca (ad esempio Boccaccio), in Europa si manifestarono due tipi di peste: quella bubbonica e quella setticemica. Gli uomini medioevali ritenevano che la causa di questa epidemia fosse la collera divina ma contemporaneamente la medicina cercava la causa della malattia. La teoria più diffusa collegava la malattia alla “corruzione dell’aria”. Quindi si consigliava di evitare l’aria al di sopra delle acque stagnanti e di eliminare la sporcizia. Per non contrarre la peste si consigliava di isolare i malati affinché non contaminassero anche i parenti e di spalancare le finestre sperando che l’aria fresca combattesse la malattia. La regola d’oro, però, era quella di darsi alla fuga alle prime manifestazioni di contagio.
La peste, oggi lo sappiamo, è causata da un bacillo, isolato da uno scienziato russo nel 1894 e che si sviluppa nei ratti comuni. Nel Trecento, la diffusione della malattia fu facilitata dall’assenza di fognature nella città e dai commerci via mare in quanto soprattutto nelle stive delle navi erano annidati molti topi neri, principale causa dell’epidemia.
I medici dell’epoca compresero che la malattia si diffondeva anche per via aerea ma nonostante queste conoscenze non avrebbero potuto arrestare l’epidemia: ci sarebbero voluti gli antibiotici.
L’ultimo episodio di epidemia di peste allarmante risale alla fine dell’Ottocento: il morbo ricomparve in Cina per poi diffondersi nell’Estremo Oriente, in India e in America. Per fortuna, si conosceva la causa della malattia: le persone contagiate vennero subito isolate e si riuscì ad arrestare la diffusione del morbo.

Il ricordo di… SuperSic

Rossi e Simoncelli

Una domenica come le altre, precisamente il 23 ottobre 2011, Italia 1 trasmette la gara del Motomondiale. Ore 10 lo start della corsa con Caesy Stoner, pilota australiano, che si gioca il titolo mondiale con lo spagnolo Jorge Lorenzo. Nel pre-gara Marco Simoncelli sembra molto concentrato ma allo stesso tempo scherzoso e tollerante con i giornalisti tanto da conceder loro un’intervista in cui annuncia la creazione di un nuovo sito internet. Ci troviamo in Malesia al -Sepang International Circuit- dove il Sic parte 5° in griglia di partenza. La gara parte e subito si accende una bagarre tra Alvaro Bautista, pilota spagnolo in sella alla Suzuki, e il ragazzo originario di Cattolica. Ma il testa a testa sta per cessare: Marco a metà del secondo giro perde il controllo della sua moto e invece di scivolare verso l’esterno della pista, rimane attaccato al manubrio e taglia trasversalmente il tracciato. Così il Sic, soprannome derivato dalla sigla del nome imposta dalla regia internazionale, viene investito da Colin Edwards e Valentino Rossi, quest’ultimo molto amico di Simoncelli. Dopo l’impatto si capisce che la situazione è drammatica, Marco è fermo in mezzo alla pista, sdraiato senza accennare movimento e, per giunta, senza casco. Si cominciano immediatamente le operazioni di rianimazione ma risulteranno vane in quanto alle ore 10.35 viene dato l’annuncio che Marco Simoncelli è morto. Inevitabilmente la gara viene cancellata, l’atmosfera nel paddock è surreale: il silenzio è predominante e all’interno del box Ducati Valentino Rossi è in lacrime consolato dai suoi collaboratori.
Nei giorni seguenti sulla rete televisiva Mediaset vengono trasmessi programmi in ricordo del pilota morto alla giovanissima età di 24 anni. Pochi giorni prima del funerale viene fatta un’intervista al padre che mi ha colpito molto in quanto il genitore si domanda se ha fatto bene o male ad insegnare a suo figlio ad essere un guerriero e a non arrendersi mai: infatti è proprio per questo motivo che Marco è deceduto: egli voleva a tutti i costi vincere e per questo ha messo repentaglio la propria vita pur di raggiungere il suo obiettivo. Valentino Rossi, il pilota più bravo di tutti i tempi, ricorda l’amico in un’intervista rilasciata a Sky; racconta ciò che facevano durante le pause del Motomondiale. Infatti entrambi erano appassionati di corse di automobili e moto cross e tantissime volte andavano a correre insieme coltivando un’amicizia sempre più forte. Il pesarese oltre a sentirsi responsabile in qualche modo della morte dell’amico, legge sui giornali che Valencia, l’ultima gara del mondiale 2011 sarà l’ultima per lui. Nella stessa intervista a Sky dichiara che lui non ha mai detto nulla di simile e che continuerà a correre finché il fisico glielo permetterà. In questo caso mi permetto di fare una digressione: il giornalista cerca in ogni modo di fare notizia raccontando fatti non realmente accaduti. Valentino scosso per la morte dell’amico, ma soprattutto per esserne accidentalmente responsabile, si è trovato a dover smentire diverse notizie false sul suo conto. Questo mi fa capire quanto il mondo mediatico cerchi in qualsiasi modo di fare notizia fregandosene della situazione che una persona sta attraversando.

Perché Marco non è mai stato dimenticato? Continua la lettura di Il ricordo di… SuperSic