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La Congiura delle polveri del 5 novembre 1605

V con la maschera di Guy Fawkes

La “Congiura delle polveri” del 5 novembre del 1605 fu un complotto organizzato da un gruppo di cattolici inglesi contro il re ed il governo inglese. Il piano era quello di far esplodere la Camera dei Lord e di uccidere così il re Giacomo I d’Inghilterra ed il suo governo durante la cerimonia di apertura del parlamento inglese.

Il complotto fu ideato da Robert Catesby. Egli riteneva esaurite le vie pacifiche per ottenere una politica di tolleranza per i cattolici e, di fronte a una persecuzione che non diminuiva, pensava alla violenza come ultima risorsa. Il piano fu svelato in una lettera consegnata al re venerdì l’1 novembre 1605. Nella notte del 4 novembre Guy Fawkes venne trovato in possesso di trentasei barili di polvere da sparo; fu quindi arrestato e torturato e infine giustiziato.
Che cos’era successo?
Nel primo incontro, i congiurati avevano giurato di mantenere il segreto (tenendo la mano destra sulla Bibbia). Il piano era quello di far esplodere il Parlamento per eliminare il re ed il suo governo e metter fine alle pressioni sui cattolici. Questo avrebbe ucciso anche tanti innocenti, ma i congiurati ritenevano che il valore dell’operazione fosse tale da compensarne la morte.
Bisognava poi trovare un Protettore, ovvero un uomo subito pronto a governare per riportare l’ordine e per introdurre le riforme religiose che erano l’obiettivo principale dell’impresa. I cospiratori scelsero come Protettore il conte di Northumberland: aveva simpatie per il cattolicesimo ed era parente di uno dei congiurati. Inizialmente si era deciso di parlare del piano al conte così non che non fosse andato alla cerimonia, ma poi si decise di lasciare tutto al caso e di scegliere un Protettore tra i superstiti dell’attentato (seguendo una lista nella quale Northumberland era il primo).

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Il “peccato originale” dell’industria italiana

Operai della Breda al lavoro nel reparto di produzione di siluri durante la Prima guerra mondiale, 1915-1918 (Fondazione Isec, fondo Breda)
Operai della Breda al lavoro nel reparto di produzione di siluri durante la Prima guerra mondiale, 1915-1918 (Fondazione Isec, fondo Breda)

Lo storico Alberto Caracciolo ha individuato una sorta di “peccato originale”, che avrebbe segnato il destino dell’industria italiana. L’affermarsi della Rivoluzione industriale in Italia può essere collocato, in gran parte, nell’età giolittiana (1901-1914). L’intervento statale ebbe un ruolo fondamentale nell’incentivare questa fase di crescita. Fu inoltre attuata una politica protezionistica, con l’imposizione di alte tasse sui prodotti esteri. Questo provvedimento, tuttavia, danneggiò le imprese del Sud, poichè i mercati esteri reagirono chiudendo le porte ai nostri prodotti tipici come olio, vino e agrumi. Dopo una fase di rallentamento dell’economia internazionale, con l’inizio della prima guerra mondiale, l’industria italiana, non solo si risollevò, ma conobbe un eccezionale sviluppo, dal momento che, in una guerra per la prima volta combattuta in trincea, sarebbe stata decisiva la disponibilità di equipaggiamento militare e ausiliario. Lo Stato si trasformò infatti in un “insaziabile consumatore”. Venivano inoltre accordati larghi anticipi per coprire i costi della produzione e il reinvestimento dei capitali era fortemente incentivato, grazie a una severa tassazione su quelli non investiti. Le imprese non dovevano preoccuparsi di costi di produzione o del rischio di perdite, come in normali condizioni di mercato. Queste condizioni straordinarie consentirono straordinarie crescite, come quella del gruppo siderurgico Ansaldo. Oltre a consentire lo sviluppo di importanti gruppi industriali, questo particolare contesto rivitalizzò settori fino a quel momento trascurati, come quello chimico o quello estrattivo. È in questa fase che, secondo lo storico Alberto Caracciolo, è rintracciabile il “peccato originale dell’industria italiana”. Alla fine della guerra,  infatti, le industrie erano ormai eccessivamente abituate all’appoggio economico dello Stato e ad una politica protezionistica che non permetteva di confrontarsi con il mercato internazionale;

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I quattordici punti di Wilson

I "quattro grandi" alla Conferenza di pace di Parigi (da sinistra a destra: Lloyd George, Vittorio Emanuele Orlando, Georges Clemenceau, Woodrow Wilson)
I “quattro grandi” alla Conferenza di pace di Parigi (da sinistra a destra: Lloyd George, Vittorio Emanuele Orlando, Georges Clemenceau, Woodrow Wilson)

Il 18 gennaio 1919 a Parigi si tenne la Conferenza di pace in cui i vincitori della Prima guerra mondiale (Francia, Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti) stabilirono le condizioni di pace. Gli Stati sconfitti furono convocati solo per la firma dei trattati.

I principi che dovevano ispirare gli accordi di pace erano stati già esposti dal presidente americano Woodrow Wilson nel gennaio del 1918, quando davanti al Senato degli Stati Uniti aveva presentato Quattordici punti che riassumevano i progetti statunitensi per le future relazioni internazionali. Wilson richiamava al rispetto dell’autodeterminazione delle nazioni, della libertà dei mari, in sintesi di quei principi democratici in nome dei quali la Triplice Intesa – l’alleanza con cui Francia, Gran Bretagna e Russia entrarono in guerra – si era impegnata nel conflitto.
(Chi fosse interessato a leggere il testo completo dei “Quattordici punti”, può trovarlo cliccando sul link posto qui di seguito: http://it.wikipedia.org/wiki/Quattordici_punti).

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Lenin ha tradito Marx?

In questo articolo voglio approfondire un aspetto della Rivoluzione Russa che ai nostri giorni appare discutibile: Lenin, che voleva edificare il socialismo in una società come quella Russa di inizio Novecento, ha tradito Marx? O piuttosto è stato Marx a tradire le aspettative di Lenin?

Lenin, il cui nome di nascita era Vladimir Il’ic Uljanov, fu particolarmente colpito ai tempi della sua formazione politica da un episodio familiare spiacevole: l’impiccagione del fratello maggiore Aleksej, populista, coinvolto in un complotto contro lo zar. Dopo questo evento Lenin decise di prendere le distanze dal populismo (i cui metodi terroristi erano da lui ritenuti dannosi e inutili) per avvicinarsi al marxismo. Le sue idee non furono ben accolte dal regime zarista, che lo perseguitò per diversi anni dal 1895. Nel 1900 si rifugiò in Occidente dove entrò in contatto coi circoli socialisti russi.

Lenin durante un discorso nel 1919
Lenin durante un discorso nel 1919

Nel 1902, in vista del congresso del Partito operaio socialdemocratico russo, Lenin preparò un testo intitolato Che Fare, nel quale espose i principi del suo marxismo-leninismo. Lenin in pratica reinterpretò il pensiero di Marx, adattandolo però alla situazione russa, dove l’impossibilità di un’opposizione legale, il dispotismo e l’arretratezza sociale non permettevano di applicare gli strumenti delle lotte politiche occidentali. In parole povere Lenin affermava che:

  1. La lotta politica è prioritaria rispetto alle rivendicazioni sindacali;
  2. Il proletariato da solo non è in grado di realizzare una rivoluzione, per questo la lotta doveva essere guidata da un partito di “professionisti della politica”;
  3. Il partito non può essere democratico, perchè deve educare le masse all’ideologia marxista e guidarle alla conquista del potere.

Il problema era che la Russia non aveva i prerequisiti per applicare la rivoluzione socialista prevista da Marx: non era capitalista e la classe operaia era debole e poco numerosa. Tuttavia, Lenin era convinto che la rivoluzione si potesse e dovesse fare; il suo obiettivo era ottenere l’aiuto dagli altri paesi europei che avrebbero aiutato la Russia a svilupparsi e a realizzare con successo il comunismo.

Poiché Lenin aveva rifiutato il terrorismo e la tesi del ruolo-guida del proletariato, si distanziava dai populisti, ma al tempo stesso non rifiutava alcune loro tesi fondamentali, tra cui la necessità di creare un’élite di rivoluzionari. In questa situazione molti marxisti hanno osservato criticamente che egli puntava alla creazione del socialismo non con lo sviluppo economico e sociale del capitalismo quanto piuttosto con l’azione di un gruppo minoritario organizzato. Mentre per Marx la rivoluzione avviene proprio con il progresso economico e sociale, per Lenin la rivoluzione avviene con la volontà di conquista del potere; ecco perché il marxismo per Lenin fu reinterpretato in una prospettiva “partitocentrica”.

Si intuisce così che Lenin ha probabilmente tradito Marx; tuttavia, non è sbagliato affermare il contrario, ovvero che Marx avrebbe tradito le aspettative di tutti i comunisti. Nella storia nessuna rivoluzione ha poi seguito perfettamente lo schema ipotizzato dal filosofo. Il comunismo è nato solo nei paesi dove è mancato lo sviluppo del capitalismo, non è nato invece dalla sua contraddizione. Il marxismo in questo modo era diventato l’ideologia di élites d’intellettuali e delle minoranze della classe operaia. I marxisti delusero sempre le aspettative di chi sperava in una modernizzazione industriale che il debole capitalismo non era in grado di assicurare.

Il terrorismo russo nell’Ottocento

Zar Alessandro II
Lo Zar Alessandro II

Alessandro II, zar dal 1855, tentò di attuare una politica di riforme. In particolare, nel 1861, abolì la servitù della gleba. Ogni contadino avrebbe ricevuto in uso permanente la terra che sino ad allora aveva lavorato come servo. Questa legge, però, non migliorò le condizioni di vita dei contadini perché era previsto il pagamento di un riscatto, ma i contadini spesso non riuscivano a pagarlo e finivano col perdere la terra a vantaggio dei contadini più ricchi, i kulaki. Il malcontento favorì la diffusione del nichilismo e del populismo.

I nichilisti avevano posizioni materialiste e positiviste. Esaltavano le scienze esatte e rifiutavano la tradizione ed i doveri familiari e religiosi. Non avevano alcuna fiducia nelle riforme proposte dalla classe dirigente.

I populisti, invece, erano il movimento slavofili. Si opponevano a chi avrebbe voluto imitare i modelli capitalistici occidentali (gli occidentalisti) e sostenevano una via nazionale allo sviluppo della Russia. Questo sviluppo sarebbe partito dalla classe contadina. Gli slavofili, infatti, idealizzavano il popolo contadino, le sue tradizioni e la sua stabilità. I populisti intendevano alfabetizzare i contadini e renderli coscienti della loro condizioni; il loro scopo ultimo era l’abbattimento dello Stato, da sostituire con comunità agricole.
Uno dei loro metodi di lotta era il terrorismo.

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La vita del Re Sole: uno “spettacolo reale”

Reggia di Versailles
Reggia di Versailles


Durante il periodo della monarchia di Luigi XIV, la vita del re veniva ostentata come un vero e proprio “spettacolo” di corte.
L’intrattenimento regale consisteva nel far assistere funzionari, familiari, nobili e aristocratici, al risveglio del Re. Le fasi di questa rappresentazione, definite entrées, venivano divise in sei momenti diversi, ognuno dei quali aveva un prestigio e una valenza differenti. I pochi “eletti”, che avevano la “fortuna” di poter assistere e partecipare a questi eventi così “prestigiosi”, acquistavano importanza solo per il fatto di servire e aiutare il re durante la sua quotidianità, questa importanza era però proporzionale alla fase a cui si assisteva. D’altro canto, se i pochi privilegiati, che partecipavano alle fasi più illustri, si sentivano importanti e quasi “migliori”, i più, esclusi in parte da questa elitè, covavano invidia verso i primi ed esercitavano forti pressioni alla corte per entrare nelle “grazie” di Luigi XIV. Tuttavia poiché anche quelli appartenenti al rango più elevato potevano essere sostituiti in qualsiasi momento in base ai capricci del re, gli intrighi e le tensioni interne erano sempre più frequenti e accese. Il tutto faceva in modo che a palazzo non vi fossero rivelazioni spontanee di affetto, e che l’atmosfera “reale” fosse caratterizzata da tensione e competizione.
Il tutto ci porta ad identificare la vita del Re Sole non più come una vera e propria vita ma come uno spettacolo nel quale ogni partecipante è in lotta con gli altri per il ruolo di protagonista principale.

Albanese Eleonora, Di Giovanni Adriano, Giangregorio Noemi della 4B

L’inferno delle trincee

Trincea inglese 1916
Trincea inglese 1916

Durante la Prima Guerra Mondiale si ricorse spesso alle trincee, come sistema difensivo nelle guerre di posizione: un fossato più o meno profondo, scavato al momento nel terreno, che veniva utilizzato anche come rifugio. Era la tattica necessaria per aumentare le probabilità di sopravvivere, ma se riuscivi a non morire, era come vivere in un inferno.

Le condizioni igieniche erano indecenti: per soddisfare i bisogni fisiologici era presente una buca, nelle vicinanze della trincea, che nei giorni di pioggia si trasformavano in qualcosa di osceno (basta solo immaginarlo per crederci!); altre volte, era la trincea stessa a diventare una latrina. I vestiti utilizzati dai soldati erano gli stessi per settimane, pulci e pidocchi non tardarono a trovare nuovi ‘amici’. Spesso, inoltre, gironzolavano topi o altri animali, che infastidivano i soldati rosicchiando attrezzature e cibarie; come se non bastasse, una delle condizioni peggiori, era dettata dal clima, sia che fosse caldo o freddo, che ci fosse vento o piovesse.

L’idea della morte assillava i soldati giorno e notte, erano obbligati a conviverci: bombardamenti dell’artiglieria, attacchi nemici e soprattutto assalti diretti alle trincee dei nemici. Ora sei vivo, ora hai una pallottola nel petto. Questi soldati sono persone come noi; hanno paura, sono nervosi, stressati, magari vengono presi da attacchi di vomito o di diarrea, alcuni hanno crisi di allucinazioni e trovano l’unica soluzione nel suicidio. Ma allora perchè combattere?

Molti studiosi individuano una ragione nel patriottismo, nel sentimento nazionale; un altro motivo che spingeva i soldati ad andare avanti era la solidarietà tra le piccole unità combattenti. Ma siamo sicuri che i soldati non fossero semplicemente obbligati a combattere dai loro comandanti? Dobbiamo tenere conto che spesso disertare significava essere fucilati dal proprio ufficiale, che – secondo varie testimonianze – si posizionava dietro la truppe con il compito di “serra-fila”, proprio per giustiziare chi voleva defilarsi. anche se un soldato fosse riuscito a scappare, probabilmente non avrebbe trovato rifugio nemmeno in famiglia; disertare non significava solo umiliare la propria famiglia, ma anche ridurla in miseria!

Movimento Operaio: origini differenti ma uniti in opposizione alla Prima Guerra Mondiale

Corteo che inneggia al potere operaio
Quarto Stato, Pellizza da Volpedo

Il termine “movimento operaio” sta a indicare l’insieme delle organizzazioni (sindacali, politiche, cooperative, assistenziali e culturali) che accolgono, rappresentano e promuovono gli interessi dei lavoratori salariati. Esso accompagnò la nascita dell’organizzazione sociale del lavoro avviata con la Rivoluzione Industriale in Inghilterra tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento e quindi diffusa in Europa occidentale e negli Stati Uniti.
Il movimento operaio ebbe sempre forti caratteristiche nazionali.
Le prime organizzazioni avevano prevalente carattere di tutela sindacale e di mutuo soccorso, ma dovettero in primo luogo battersi per lo stesso diritto di associazione.
Le rivoluzioni del 1848 (nelle quali si schierò in prima fila il proletariato urbano, ancora in gran parte disorganizzato) portarono alla nascita del socialismo scientifico, che per primo volle dare coscienza di sé, capacità organizzativa e fini universali agli operai “in quanto classe” (distinti cioè dal resto della società e contrapposti alla classe capitalistica detentrice del potere economico e politico).
Da quando questo programma diede vita alla Prima Internazionale (1864), col termine “movimento operaio” si intesero prevalentemente le organizzazioni di ispirazione anarchica e socialista. Si creò in tal modo una grave confusione tra definizione di “movimento operaio” fondata sul radicamento sociale (il lavoro salariato in quanto tale) e definizione fondata sull’ispirazione ideologico-politica. Questa confusione fu in seguito fonte di atteggiamenti settari e di gravi contrapposizioni all’interno del movimento internazionale e di ciascun paese, divisosi in tronconi distinti a seconda delle basi culturali e delle finalità politiche perseguite.
Già la Prima Internazionale, dopo la sanguinosa prova della Comune di Parigi (1871), finì per sciogliersi proprio a causa delle divergenze tra anarchici e socialisti.
In ciascun paese in realtà sorgevano organizzazioni sindacali e assistenziali anche al di fuori di questo filone, soprattutto per iniziativa del cosiddetto socialismo cristiano e delle Chiese: nacquero così, per esempio, la YMCA (Young Men’s Christian Association) in Gran Bretagna e gli Istituti di Bethel negli anni settanta in Germania.
In quel periodo anche in Italia, oltre alle Società di mutuo soccorso laiche, sorsero, grazie all’opera dei congressi, quelle di matrice cattolica. Ma ciò che soprattutto distingueva i due filoni principali del movimento operaio era che quello cristiano perseguiva scopi esclusivamente assistenziali e caritativi, senza mettere in discussione l’ordinamento della società, mentre nel filone socialista prevalevano i fini sindacali e politici di partecipazione collettiva sia alla lotta per l’emancipazione del lavoro sia, soprattutto, per la partecipazione al potere politico.
Questa connotazione “di classe” si espresse nella creazione dei partiti socialisti prima e dopo la nascita della Seconda Internazionale. Essa fu nettamente controllata dal Partito Socialdemocratico tedesco, modello di organizzazione di massa capace di incidere profondamente sulle condizioni di vita civile dei lavoratori, mentre sui rapporti di forza con gli imprenditori esercitavano il loro determinante peso i liberi sindacati socialisti.
Mentre il Partito operaio socialdemocratico russo era costretto a nascere in clandestinità e a esercitare solo una ristretta influenza, in Francia il Partito operaio e  il Partito Socialista Rivoluzionario si fusero e la Confederazione Generale del Lavoro raccolse in un’unica organizzazione le varie associazioni.
Analogo processo diede vita in Italia al Partito Socialista Italiano e alla Cgl, mentre su ampie fascie di lavoratori una forte incidenza veniva esercitata dalla dottrina sociale della Chiesa, alla quale si ispirarono i sindacati cosiddetti “bianchi” sia in Francia che in Italia, nonché la Internazionale Cristiana del 1908.
Molto diverso in Gran Bretagna fu lo sviluppo del Trade Union Congress, che raggruppò diverse leghe sindacali (le quali però mantennero gran parte della propria autonomia) del partito laburista, che a sua volta era federazione sia di sindacati, sia di gruppi politici a carattere locale.
Ancora più difficile e contrastato fu il processo di organizzazione negli Stati Uniti: alle differenze ideologiche e professionali si sovrapponevano,  spesso ancor più gravi e volutamente approfondite dalla propaganda padronale, le differenze etniche e culturali. Vari furono i tentativi di unificazione che lasciarono il passo all’American Federation of Labor (nato nel 1886), organizzazione sindacale tesa alla difesa delle aristocrazie operaie anglosassoni. Un’organizzazione politica di stampo “operaio” con pretese “di classe” non riuscì però mai a decollare.
Ogni partito dunque aveva alle spalle una storia differente ma ciò che unificò ampiamente il movimento operaio da uno stato all’altro fu la Prima Guerra Mondiale: l’opposizione a un conflitto di così vaste proporzioni crebbe in tutti i paesi coinvolti e assunse spesso carattere di sollevazione popolare.
Negli anni immediatamente precedenti la guerra, la Seconda Internazionale Socialista prese posizione contro un evento considerato estraneo agli interessi del proletariato e voluto dai capitalisti per portare avanti i loro progetti imperialisti. A livello locale prevalsero le ragioni degli interessi nazionali rispetto a quelle dell’internazionalismo operaio, perciò nel 1915 i socialisti pacifisti organizzarono una conferenza internazionale in Svizzera dove si ribadì con forza la condanna alla guerra e si propspettò l’idea di trasformare la guerra in rivoluzione proletaria. Questa tesi fu supportata soprattutto dal socialista russo Lenin, nel cui paese si arrivò persino all’abbandono di massa del fronte, seguito nel 1917 dalla Rivoluzione d’Ottobre.

Italiani brava gente?

Da sempre potenze come la Spagna, il Portogallo e l’Inghilterra si sono affermate come protagoniste nello scenario coloniale. Al contrario di questi paesi l’Italia non ebbe mai lo stesso successo:  i suoi tentativi di conquista coloniale non sempre andarono a buon fine.
Il caso della Libia dimostra le difficoltà che l’Italia ha storicamente incontrato nei suoi progetti di espansione. Nell’ottobre del 1911 inizò il bombardamento da parte delle navi italiane di Tripoli, permettendo l’occupazione della città senza eccessivi problemi. La popolazione restò infatti tranquilla, permettendo agli italiani di assumere un atteggiamento paternalistico nei confronti dei conquistati, atteggiamento dovuto ad una profonda ignoranza nelle conoscenze delle tradizioni libiche. Poco dopo, infatti, scoppiò una rivolta della popolazione che si trovava nel territorio occupato dagli italiani: l’esercito italiano subì molte perdite poichè nessuno mai si sarebbe aspettato una reazione così violenta. La risposta dell’esercito italiano non si fece attendere: i soldati incominciarono ad uccidere e a colpire la popolazione in modo indiscriminato e chi non fu giustiziato fu deportato in carceri italiane.
A questo punto il governo italiano decise di cambiare tattica, proclamando innanzitutto la sovranità italiana sulle province turche, la Tripolitania e la Cirenaica. Successivamente, anzichè continuare l’attacco alla Libia spostò il conflitto in Turchia. Il governo ottomano, preoccupato per un possibile intervento italiano sul proprio territorio, avviò le trattative di pace e il ritiro delle truppe turche indebolì i libici.
Le repressioni delle rivolte libiche da parte del governo italiano continuarono anche durante il periodo fascista, in cui l’Italia impiegò per la prima volta mezzi aerei all’avanguardia.
La resistenza libica durò fino il 1930 quando Pietro Badoglio, governatore della Libia, decise di occuparsi personalmente del problema e deportare migliaia di libici in campi di concentramento.
In nessun’altra colonia la repressione italiana ha assunto le dimensioni di quelle libiche; i tanti massacri e b0mbardamenti non confermano quindi il presunto buonismo del colonialismo italiano rispetto a quello delle altre potenze europee: la storia conferma infatti che non sempre gli italiani sono brava gente.

L'impiccagione di Omar al Muktar a Soluk
il 16 settembre 1931
L’impiccagione di Omar al Muktar a Soluk il 16 settembre 1931

Stacanovista: le origini

Stachanov in miniera
Stachanov, al centro, parla con un suo collaboratore.

Quante volte ci è capitato di sentire la parola “stacanovista” senza sapere da cosa significhi esattamente oppure da dove derivi.

Per chi non lo sapesse il termine si riferisce a coloro che dimostrano una dedizione al lavoro fuori dal comune. Il termine venne coniato nei primi anni del ‘900 quando, in Russia, nacque il movimento Stacanovista che aveva come scopo quello di aumentare la produttività razionalizzando il lavoro. Il movimento, a sua volta, prendeva il nome dal minatore sovietico Aleksej Grigoriyevich Stachanov, “Eroe del Lavoro Socialista”.
Divenne una celebrità per aver ideato un nuovo metodo di estrazione del carbone basato sulla cooperazione dei minatori: Stachanov stesso si occupava del taglio del carbone che veniva poi trasportato sui carri dai suoi compagni. In questo modo, il 31 agosto 1935, stabilì il record di maggior quantità di carbone estratto in un turno di lavoro (120 tonnellate in 5 ore e 45 minuti).

Il governo sovietico diede enorme risalto ai metodi di lavoro di Stachanov che furono così adottati in altre miniere. In suo onore nell’Unione Sovietica il 31 agosto divenne il “giorno del minatore di carbone” e nel 1978 la città ucraina di Kadievka prese il nome di Stachanov.

Questa vicenda ebbe un così grande risalto tanto da ammettere il termine “stacanovista” nel nostro vocabolario moderno.