Il cinema in trincea

Fin dai primi anni in cui si diffuse in clima di guerra, il cinema divenne un’arma di difesa per il rafforzamento e la mobilitazione ideale del fronte interno. Gli obiettivi inizialmente non erano tanto volti a rappresentare il realismo della guerra quanto invece incitare emotivamente i soldati e quindi favorire un senso di partecipazione economica allo sforzo bellico.

La rappresentazione della prima guerra mondiale attraversò diverse fasi: in un primo momento gli operatori non ebbero accesso alle trincee, perciò la guerra appareva lontana. Nella seconda fase venne esaltato l’elemento umano, il  sacrificio e la capacità di affrontare il freddo e gli sforzi. Infine  nell’ultima fase gli operatori poterono accedere al fronte così da immortalare nel modo migliore i processi d’industrializzazione in atto nei vari paesi partecipanti al conflitto.

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Mito e Filosofia: differenze

Per secoli ci siamo chiesti che cosa fosse la filosofia.

Tuttora non esiste una  definizione accettata e considerata valida della filosofia, che metta d’accordo i pareri di ognuno.

In genere, la filosofia viene ritenuta l’arte del sapere. La filosofia, è l’amore quindi per la conoscenza, che spinge l’uomo a voler apprendere qualcosa, senza un secondo fine. La filosofia  si occupa anche dei problemi non trattati dalle altre scienze e di quelli che sorgono durante esse nel corso del loro sviluppo.

Il mito,  nato parallelamente alla filosofia, è la spiegazione apparente di ciò che non si sa.

Con il mito, le antiche civiltà, spiegarono ciò che per loro era inspiegabile, quale la creazione del mondo e i fenomeni atmosferici Spesso le vicende narrate nel mito hanno luogo in un’epoca che precede la storia scritta.

Nell’antichità, il mito era considerato una narrazione sacra; con ciò s’intende che esso viene considerato verità di fede e che gli viene attribuito un significato religioso o spirituale. Ciò naturalmente non implica né che la narrazione sia vera, né che sia falsa.. Usavano il mito per capire ciò che per loro era incomprensibile, usando spiegazioni spesso inerenti all’ambito del fantastico, coinvolgendo le divinità. Il mito dunque, definisce qualcosa spesso con una spiegazione fantastica. Ti fa sapere ciò che non sai spiegarti.

Al contrario la filosofia ti fa sapere qualcosa solo per il piacere di conoscerla.

“Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti”, di Italo Calvino

Breve racconto – qui riportato con qualche “taglio” – del “nostro” Calvino. Profezia? Lungimiranza? Realtà che supera la fantasia? Vale la pena di leggerlo. Pino Gargiulo

“Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti” di Italo Calvino
[Tratto da Romanzi e racconti – volume 3°, Racconti e apologhi sparsi, i Meridiani, Arnoldo
Mondadori editore. Uscito su la Repubblica, 15 marzo 1980, col titolo “Apologo sull’onestà nel
paese dei corrotti”].
“C’era un paese che si reggeva sull’illecito Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia.
[……]
Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili.
In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere.
Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri.
[…..]
Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.

Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile.

Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una contro società di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una contro società che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società, ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé (almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la contro società degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è. “

La parola: strumento di persuasione?

Molti si limiterebbero a definirla semplicemente come un mezzo di comunicazione; altri come uno strumento di manifestazione della verità; altri ancora come espressione del pensiero. Ma Gorgia, sofista del VI secolo a.C., non sarebbe affatto d’accordo. Lui, che della parola è un grande esperto, afferma:

La parola è un gran dominatore che, pur dotato di corpo piccolissimo e invisibile, compie le opere più divine . Essa può far cessare il timore, togliere il dolore, dare una gioia, accrescere la compassione; sa ingannare e persuadere la mente. Chi la ascolta è invaso da un brivido, dal terrore, da una compassione che strappa le lacrime e da una struggente brama di dolore. Il fascino divino che suscita la parola è anche generatore di piacere e può liberare dal dolore. La forza dell’incantesimo, accompagnandosi all’opinione dell’anima, la seduce, persuade e trasforma per mezzo del suo incanto.

Quindi secondo Gorgia la parola è un’arma pericolosa, un’arte magica che incanta l’ascoltatore rendendolo suo schiavo; un mezzo potentissimo di persuasione, che agisce non mediante argomenti che convincono l’intelletto, ma in maniera inconscia, rendendo la consapevolezza di chi ne subisce il fascino nulla. Per lui la parola non è un mezzo di verità, cioè non serve per esprimere come stanno veramente le cose, ma è un tentativo di stimolare determinate emozioni e comportamenti: insomma è una sorta di “inganno”. E in fondo, come dargli torto? Chi non è stato mai sedotto da un discorso ben argomentato, coinvolgente, da belle parole che magari di per sé non han gran valore, ma dette nella maniera giusta sanno conquistare il tuo interesse?
Tuttavia, forse Gorgia esagera un po’, poiché crede che sia importante “solo” come si esprima un discorso e come lo si argomenti, cioè per lui il tutto assume valore rispetto alla sola abilità dell’oratore nel parlare, e non ha la ben che minima importanza il vero contenuto delle sue parole. Questo, nella realtà, non è del tutto vero, poiché per quanto un discorso possa essere affascinante, ipnotico ed elaborato, deve avere anche un minimo di credibilità per conquistare veramente. Ma comunque condivido pienamente l’idea che il linguaggio abbia una grande potenza e che debba essere maneggiato con molta cura, in quanto non è solo pericoloso per l’ascoltatore, ma anche per chi lo usa: è un’arma ingannatrice a doppio taglio.

Kyros, il dio della guerra

Il futuro dio della guerra, di nome Kyros, inizialmente era un comune umano, o almeno così pensava di essere. Infatti sua madre era stata messa incinta da Galaction, re degli dei dei Kazaki, perchè il marito aveva oltraggiato gli dei. La donna non si era accorta dell’inganno di Galaction poichè questi aveva preso le sembianze di suo marito, il quale, dopo che ebbe scoperto l’accaduto, uccise la donna e abbandonò il bambino. Così il piccolo fu adottato da una famiglia di Astana e fin dalla giovane età dimostrò il proprio talento in guerra. Successivamente diventò comandante del fortissimo esercito kazako, che era tra i migliori alla pari di quello spartano. Quindi Kyros si era sposato ed aveva avuto una bambina due anni prima di partire per una campagna militare contro i barbari che arrivavano dal Nord. Dopo tre anni di sanguinose battaglie, l’esercito kazako, inferiore di numero e mezzi, stava per soccombere definitivamente. Così Kyros decise di fare un patto con il dio della guerra, Mulleb: lui sarebbe diventato il servitore del dio che in cambio avrebbe fatto vincere loro tutte le guerre. Da quel momento Kyros divenne un’arma di Mulleb, perdendo col passare del tempo la propria coscienza. Quindi il dio, per non fargli provare più alcuna emozione e renderlo la macchina da guerra perfetta, tese un tranello all’astanese: tra le fila nemiche fece comparire alcune sacerdotesse di Onasimrof, dea della sapienza e sorella di Mulleb, tra cui sua moglie e sua figlia. Ma Kyros, accecato dalla setedi sangue scatenatagli dal dio della guerra, non se ne accorse e uccise tutti quanti. Resosi conto di ciò che aveva fatto, si rifiutò di servire ancora Mulleb e gli giurò vendetta. Quindi intraprese un lungo viaggio alla ricerca dell’anfora di Civocal, unico oggetto in grado di uccidere un dio. Venne aiutato anche da Onasimrof e dallo stesso padre Galaction che volevano la morte di Mulleb, ormai fuori controllo. Dopo varie peripezie riuscì a rubare l’anfora e apertola acquisì i poteri di un vero dio. Quindi si recò sul monte Odopirt, casa degli dei, e dopo uno scontro all’ultimo sangue riuscì ad uccidere Mulleb e fu nominato dagli altri dei “Nuovo Dio della Guerra”.

ideato da Shasa De Grandis, Marco Mari e Andrea Trevisan.

La condizione di vita dei soldati nelle trincee durante la Prima guerra mondiale

La trincea, un fossato scavato nel terreno al fine di offrire riparo al fuoco nemico, è un antichissimo sistema difensivo utilizzato nelle guerre di posizione. Durante la prima guerra mondiale raggiunse il massimo utilizzo.

In questo conflitto i militari furono costretti a viverci per quattro lunghissimi anni, in pessime condizioni:

  • per la sporcizia, infatti la mancanza di igiene trasformò ben presto le trincee in un rifugio per topi che prolificarono a dismisura
  • per le intemperie climatiche,  in quanto d’estate il caldo, d’inverno la neve, il gelo, la pioggia erano insopportabili
  • ma soprattutto per lo stato di tensione continua che logorava i nervi. Ciò che rendeva le sofferenze inaccettabili era la onnipresente presenza della morte incombente: un soldato dopo colazione non sapeva se sarebbe arrivato a cena… Inoltre aveva davanti a se uno spettacolo agghiacciante: i cadaveri rimanevano tra le opposte trincee, nella zona chiamata terra di nessuno, per giorni, talvolta per sempre.

Questa situazione accomunava gli eserciti di entrambi gli schieramenti. Sicuramente la vera dispensatrice di morte e il vero terrore fu l’artiglieria, che con gli incessanti bombardamenti causò circa il 70% dei morti e dei feriti nel corso del conflitto. Prima di un attacco alle trincee nemiche, queste venivano martellate da bombardamenti lunghi ed incessanti. Ove non vi era l’effetto distruttivo di queste armi, vi era tuttavia il terrore, la confusione e lo stress provocati dalle continue deflagrazioni, che arrivavano a durare anche numerose giornate consecutive. L’obiettivo era quello di stordire e spaventare il nemico trincerato, così che non potesse reagire con determinazione all’imminente assalto. Assalto che era per i soldati il peggiore momento della guerra. Il preannuncio dell’attacco era di pochi minuti o al massimo di un paio d’ore, e proprio l’attesa era il momento più angosciante.

Tutti i soldati sapevano che molti di loro sarebbero rimasti impigliati nel filo spinato e sarebbero diventati obiettivi ideali per i tiratori nemici, ma sopratutto erano consapevoli che era tutta la loro azione sarebbe stata inutile: anche se fossero riusciti a conquistare la prima linea, avrebbero ricevuto la controffensiva della seconda linea e sarebbero stati ricacciati indietro. Ovviamente per tutti questi motivi la resistenza nervosa dei soldati fu messa a dura prova: i più “duri” avevano singhiozzi convulsivi, tremori, conati di vomito, e prostrazioni, i più sensibili  arrivavano addirittura alla ribellione, alla diserzione, alla follia e al suicidio. Comunque, quando veniva impartito un ordine, l’attacco veniva sferrato.

Una forza che permetteva ai soldati di continuare a combattere nonostante tutto fu la solidarietà. Essi sapevano che erano tutti sulla stessa barca, nessuno escluso. Lo spirito di corpo e il cameratismo davano un senso di unione e di coesione ai soldati, che diventarono un’unica grande famiglia. Questo concetto è espresso bene della poesia Fratelli di Ungaretti del 1916.

Trincea

« Di che reggimento siete fratelli?

Parola tremante nella notte

Foglia appena nata

Nell’aria spasimante

involontaria rivolta

dell’uomo presente alla sua

fragilità

Fratelli»

Comunque anche l’uso della fucilazione, e soprattutto la pressione psicologica subita dai militari e dalle loro famiglie “persuadeva” loro a combattere… Come avrebbero fatto infatti a passare la prima e la seconda linea, a sfuggire ai controlli della polizia e a tornare a casa? E se anche ci fossero riusciti, come avrebbero reagito i parenti? Dopo quanto tempo sarebbero stati denunciati alle autorità? E chi avrebbe offerto loro un lavoro?

Non rimaneva che obbedire agli ordini e combattere.

Francesco Mastrogiovanni

Grandine

In un piccolo paesino a Sud di Atene viveva Chalaza, una bellissima ragazza. Ella passava le giornate a guardarsi allo specchio e a pettinarsi i capelli con la spazzola.
Chalaza aveva una coperta speciale. Era un regalo dei suoi genitori; era azzurra, e quando sua mamma gli e la regalò, le disse: «Tieni Chalaza, il mantello azzurro del sole, custodiscilo con cautela, è un regalo speciale» . A Chalaza quella coperta stava troppo a cuore, e quando aveva freddo, se la buttava sulle spalle e stava al calduccio, certe volte, per non fare brutta figura, si metteva sopra un altro mantello, oppure, quando aveva caldo, lo appallottolava e se lo metteva nella tasca, senza farsi vedere.
Ma Chalaza aveva un difetto, era presuntuosa e credeva di essere la piu bella tra tutte le fanciulle. Un giorno, giunse in paese Clarissa, una splendida ragazza dell’Est. Tutti cadevano ai suoi piedi: era davvero la piu bella tra tutte le fanciulle.
Chalaza vedendo tutti i ragazzi più belli che appena la vedevano se ne innamoravano, venne colta dalla gelosia e, quando si fece sera, entrò nella sua stanza e le puntò un pugnale  dritto nel cuore. Poi scappò e non si fece più vedere. Zeus, vedendo tutto dall’alto, pensò di punire Chalaza, la portò con se sull’ Olimpo e le tolse la sua amata coperta.

Senza la coperta Chalaza si sente al freddo e, nei giorni gelati, quando la temperatura cala di tanti gradi, Chalaza è cosi gelata che piange pezzettini di ghiaccio che paiomo cristalli, belli e maestosi come lei.

Simone Caronni-Davide Storelli-Grillo Federico

grandine

Due ore sul palco… due ore speciali

Il regista Marco Pernich

Finalmente dopo 5 lunghi mesi di “astinenza” oggi ricomincia il laboratorio teatrale della scuola. Questo è per me il terzo anno, la maggior parte del vecchio gruppo ormai non c’è più. I ragazzi di quarta e quinta hanno terminato gli studi e alcuni ragazzi di prima hanno invece deciso di cominciare questa attività. Ma una cosa è importante: l’insegnante non è cambiato e quindi in fondo il laboratorio è rimasto lo stesso. Ricordo ancora quando in prima liceo, rapita dalla bellezza dello spettacolo decisi di iscrivermi, nonostante avessi timore anche di alzare la mano in classe per chiedere di andare in bagno.
Nel primo spettacolo ho detto 7 battute, nel secondo 20, ma non è questo l’importante, avrei potuto anche stare zitta, l’importante è essere parte del gruppo. L’importante è sapere che dalle 14,30 alle 16,30, non importa cosa sia successo la mattina, se sia andata male un’interrogazione, una verifica o una litigata con i genitori, per quelle due ore, con i cellulari rigorosamente spenti (e guai a dimenticartelo acceso!), non si deve pensare ad altro che allo spettacolo e al gruppo, a trasmettere qualcosa a quelle persone che per 45 minuti circa stanno sedute di fronte a noi e ci danno la possibilità di dire qualcosa, di essere ascoltati. Perché pensandoci, quando mai ci capita la possibilità di essere ascoltati veramente?

Seduta sulla sedia dell’auditorium aspetto pazientemente le 14,30 e intanto penso a cosa faremo oggi. Sono sicura, oggi Marco, l’insegnante (anche se lui non vuole che lo si chiami così), trascorrerà due ore facendoci il solito discorso interminabile sul teatro, dicendo sempre le stesse cose che ormai, dopo aver ascoltato per due anni, conosco abbastanza bene. Eppure non vedo l’ora e dentro me spero che dica esattamente le stesse cose, perché quando Marco parla c’è qualcosa di speciale nel suo modo esprimersi. È come se le sue parole ti rapissero e se tu non potessi fare a meno di ascoltarlo. Anche le cose più banali sono talmente scontate da risultare tremendamente vere. A volte mi chiedo se faccio teatro per ascoltare lui o perché mi piace recitare. Finisco sempre con il convincermi che in fondo una motivazione non deve necessariamente escludere l’altra.

Alle 14,30 ci sono tutti, ragazzi nuovi compresi, cominciamo a conoscerci e a salutare i vecchi amici. Poi dopo un quarto d’ora arriva Marco che esordisce con la sua solita frase: “trasferite le vostre inutili molecole sul palco”. Così tutti ci spostiamo immediatamente sul palcoscenico e lui si presenta ai nuovi arrivati, che rimangono subito colpiti dal suo aspetto fisico: magro, alto e dalla lunga barba e capelli bianchi assomiglia più ad un profeta biblico che a un regista. Marco tuttavia ignora placidamente le arie confuse dei ragazzi e comincia a elencare in modo rigido e preciso le regole principali del laboratorio: niente cellulari accesi, niente braccialetti, collane,orecchini o orologi e solo 2 assenze all’anno. Tutti lo guardano con aria un po’ terrorizzata, mi sa che non hanno capito che tipo è. Poi comincia, una domanda semplice, che però ci lascia perplessi: “immaginate che io sia un marziano, su Marte non c’è il teatro, voi dovete spiegarmelo, cosa mi direste?”. Siamo così confusi che ci vengono in mente solo risposte idiote come: “beh, il teatro vuol dire fare uno spettacolo” oppure “fare teatro vuol dire recitare” o ancora meglio “vuol dire che ci sono delle persone che fingono di essere ciò che non sono”. Sono tutte risposte banali, quelle frasi sgrammaticate e senza senso che ci vengono in mente quando siamo in difficoltà, eppure per Marco non esistono domande o risposte stupide e in particolare l’ultima sembra catturare particolarmente la sua attenzione. “Interessante…” esclama “quindi delle persone fingono di essere ciò che non sono, beh, anche su Marte c’è un posto che si chiama manicomio dove delle persone credono di essere qualcun altro, gli attori sono quindi dei pazzi? dove sta la differenza?” La discussione continua per un po’, quando finalmente arriviamo a una conclusione: “la differenza sta nel fatto che i pazzi non sono coscienti di fingere di essere qualcun altro, loro percepiscono la realtà in modo diverso proprio come un daltonico percepisce il rosso al posto del verde. Un attore invece recita in modo consapevole per trasmettere un messaggio ben preciso e dire qualcosa ad un pubblico con il quale instaura una relazione emotiva”. Mi sento esaltata, mi sembra di aver capito tutto, quando Marco fa crollare il mio castello con un’altra domanda che a stento comprendiamo completamente: “Il problema del teatro non è quello di farsi capire ma di arrivare là dove le parole da sole non arrivano, e quindi, dove deve arrivare l’attore? Qual è questo messaggio a cui le parole da sole non arrivano?” Ci guardiamo con aria interrogativa, non sappiamo proprio cosa dire, come quando ad una interrogazione un professore ti fa una domanda difficilissima. Eppure qui non c’è una risposta giusta o una sbagliata e nessuno ti etichetta con un numero sul registro, ma ho paura di dire una stupidaggine, sento che qualunque cosa dicessi non sarebbe mai all’altezza di un suo intervento, così aspetto che parli lui. Lui lo avverte e comincia: “Un certo Fontana, pittore d’arte moderna, un giorno prese una tela e la incise provocando uno squarcio enorme e la portò poi in un museo. Quello che una persona istintivamente fa trovandosi di fronte a una tela squarciata in un museo è guardare dall’altra parte per vedere cosa ci sia dietro. Peccato che dietro non ci fosse niente. Vedete, il teatro, così come l’arte è l’epifania dell’invisibile.” e poi continua “L’arte è la vita senza tempi morti. Nel tempo dello spettacolo puoi fingere di fare qualsiasi cosa, essere un’astronauta o scaccolarti e fingerti un bambino, la gente ti crederà, a patto che tu lo faccia fino in fondo e non lasci trasparire la quotidianità.” e finisce dicendo “Ciò che conta nell’arte moderna è l’idea. Se qualcun altro dopo Fontana avesse fatto la stessa cosa non avrebbe avuto nessun significato, egli è stato grande non per quello che ha fatto ma per il solo fatto di aver deciso di farlo. Noi possiamo raccontare qualsiasi storia, l’importante è che abbiamo qualcosa da dire, poi troveremo il modo di dirlo”.

Mi guardo attorno, abbiamo tutti quanti un’espressione stupita, ma tutti lo abbiamo ascoltato, senza rendercene conto sono passate due ore durante le quali abbiamo discusso di tutto, eppure non siamo stanchi o annoiati, ci ha spiegato un sacco di concetti, ma senza la “presunzione” di un’insegnante, si è fatto ascoltare, ma non ha voluto che lo facessimo in modo passivo. Ha fatto una sorta di lezione, ma grazie alle sue battute e ai suoi interventi di spirito non ce ne siamo nemmeno accorti. Abbiamo parlato del filosofo Averroè e del fatto che non conoscesse il teatro, ma anche del fatto che il lupo è l’unico personaggio con una finalità pedagogica all’interno della storia di “Cappuccetto Rosso”. Ci siamo divertiti come dei matti, e abbiamo capito che matti non siamo affatto. Abbiamo trascorso due ore dedicandoci solo a noi stessi, ma abbiamo parlato di come comunicare ciò che sentiamo agli altri. Insomma, come al solito mi ha lasciato con molti dubbi e mille domande, ma su una cosa sono sicura: non importa saper recitare o no, essere timidi o estroversi e impulsivi, per come è ora il laboratorio teatrale del nostro istituto è assolutamente un’esperienza unica!

Il Mito

La parola “Mito” significa “racconto”: un racconto fantastico che ha lo scopo di spiegare com’è iniziato il mondo e come si è evoluto con il passare del tempo.
Narra in genere di Dei che attraverso diverse azioni hanno formato gli astri, il cielo, la terra, gli oceani, le montagne o di eroi che hanno formato le società civili.

Nasce dal bisogno dell’uomo di rispondere a domandeprofonde (“chi sono?, cosa ci faccio qui? qual’è lo scopo della mia esistenza?”), ma anche per soddisfare bisogni religiosi ed esigenze morali. L’uomo, non conoscendo le leggi della natura che lo circonda, per evitare di perdersi e cadere vittima della paura della sua esistenza e dei misteri della vita, crea i miti con i quali si costruisce un senso della realtà, dà un significato a ciò che lo circonda e trova qualcosa in cui credere che possa dargli sicurezza nell’affrontare i dilemmi della vita.

Prima della filosofia c’erano i miti. I miti non venivano discussi come si fa con la filosofia, ma venivano ascoltati e tramandati. Con questi si tentava di dare una spiegazione agli eventi naturali e a superare la paura della morte.
La filosofia ha il compito di sostituire i miti creati dalla fantasia per creare teorie più credibili e ragionevoli. Il mito fa sì che l’uomo creda in un essere soprannaturale che protegge gli uomini e promette loro un’esistenza dopo la morte (questo perché così l’uomo si sente più sicuro e non ha più paura del mondo). Invece la filosofia, come la scienza, cerca di spiegare la natura usando la ragione.

Alcuni miti potrebbero essere spiegazioni fantastiche di eventi realmente accaduti. In ogni antica cultura, dall’America all’estremo oriente sono stati scoperti miti molto simili. Un esempio è il mito del diluvio universale, ritrovato in 64 culture differenti, e anche tra popoli che non hanno mai avuto un contatto tra loro come i sumeri e i maya o gli arabi e i nativi delle Hawaii.
Attraverso i miti, inoltre, si può capire come era impostata la mentalità di diversi popoli, ovvero vedere e capire con quale spirito affrontavano il mondo e la natura circostante.

Il diluvio - miniatura

Mitologia giapponese

La mitologia giapponese è molto diversa da quella nostrana poichè si basa su credenze shintoiste invece che greche o cristiane e, perciò, vanta un pantheon di oltre 8000 Kami (divinità o spiriti) di cui alcuni sono stati creati grazie all’influenza della Cina.
In generale la mitologia parla della creazione degli dei o del Giappone con le sue isole, successivamente si trasforma e inizia a trattare le origini della famiglia reale, ritenuta “divina”, infatti l’ideogramma giapponese (天皇), significa appunto “imperatore divino” (天 significa celeste).
Anche i giapponesi hanno diversi miti simili a quelli greci come, ad esempio, il mito della creazione o della terra dei morti alla quale si accede dopo la morte. In particolare quest’ultima si differenzia da quella greca poiché è uguale alla terra ma c’è l’oscurità eterna.

Ecco il mito della creazione del Giappone:

Le divinità diedero alla luce due esseri, Izanagi (essenza maschile) ed Izanami (essenza femminile), incaricandoli di creare la prima terra.Per aiutarli in tale compito venne donata loro anche un’alabarda chiamata Amanonuhoko (Albarda Celeste della Palude).
Dunque, Izanagi ed Izanami si recarono al ponte che collegava cielo e terra (l’Amenoukihashi, Ponte Fluttuante del Cielo) e mescolarono il mare sottostante con l’alabarda ingioiellata. Alcune gocce d’acqua precipitarono e si trasformarono nell’isola di Onogoro, dove i due scesero ad abitare.
Eressero un pilastro (Amenomihashira) e attorno ad esso costruirono un palazzo (Yahirodono) quando decisero di avere dei figli. Dunque iniziarono a girare attorno al pilastro in direzioni opposte finché non s’incontrarono: la divinità femminile salutò per prima, “offendendo” un po’ Izanagi, che decise di giacere comunque con lei. Ebbero quindi due bambini, Hiruko (bambino debole) e Awashima (isola pallida), malformati e non considerati divinità.
Misero dunque i bambini in una barca e li abbandonarono in mare aperto, pregando gli dei sommi per capire per quale motivo fossero nati figli simili, se fossero una punizione per aver fatto qualcosa di sbagliato: venne detto loro che avrebbe dovuto salutare prima la divinità maschile; i due tornarono al pilastro, si ripetè il rito, Izanagi salutò per primo e nacquero figli di stirpe divina: le Ōyashima, ovvero le otto grandi isole del Giappone, e in seguito numerose altre isole e molte divinità.
Izanami morì dando alla luce Kagututi (incarnazione del fuoco) e venne sepolta sul monte Hiba; Izanagi uccise Kagututi per la disperazione, generando con la sua morte dozzine di altre divinità.
[Fonte: http://shoujodaikazoku.forumfree.it/?t=57266237]

Izanagi e Izanami
Dipinto di Kobayashi Eitaku, 1880-90 (MFA, Boston). Sulla destra Izanagi con la lancia Ame-no-nuhoko e sulla sinistra Izanami.